Lo scorso agosto ha compiuto settant’anni, ma ad alleggerire la sua agenda-concerti Pat Metheny non ci pensa proprio e il 3 novembre sbarca all’auditorium Manzoni di Bologna, nell’ambito del Bologna Jazz Festival, con quel ’Dream Box Tour’ che lo vede solo con le sue chitarre, plurale d’obbligo visto il generoso utilizzo di loop. Tant’è che la capacità attrattiva di questo one-man show sull’auditorio è la stessa dei concerti con band, grazie al disinvolto passare da uno stato d’animo all’altro che consente al musicista di Lee’s Summit di colorare lo spettacolo con una girandola di chitarre diverse tra cui la celebre ’Picasso’ a 42 corde.
Pat, la sua visione della musica è ancora quella del ventiduenne alle prese con le prime esperienze nell’album di debutto ’Bright Size Life’?
"Tutto sommato sì. Per il suo valore e la sua attualità, potrei suonare ‘Bright Size Life’ ancora serenamente per intero. E lo stesso vale per quasi tutto quel che è arrivato dopo. Ci sono musicisti che attraversano la vita come serpenti, abituati a cambiare pelle di continuo. Io, no. Per me la musica è una attività evolutiva che aggiunge di continuo nuove stanze alla casa in cui vivo".
Con oltre 50 titoli, la sua discografia è molto ampia. C’è un album che oggi non rifarebbe o che registrerebbe in un modo completamente diverso?
"Per me niente inizia e niente finisce, ma tutto si trasforma. Non faccio distinzioni tra questo o quel periodo, tra questa o quella band. Ogni contesto musicale creato nel corso degli anni ha rappresentato una nuova versione del mio senso di fare musica, del mio stare in una band. Penso che ciascuna delle avventure artistiche affrontate nel tempo abbia ancora un suo interesse e nessuna strada percorsa sia realmente finita".
La chitarra baritona del nuovo album ’MoonDial’ ne richiama un paio del passato come ’One Quiet Night’ del 2003 e ’What’s It All About’ del 2011 (entrambi vincitori di Grammy). Quali sono le differenze?
"Qualche anno fa ho chiesto a Linda Manzer, una delle migliori liutaie al mondo e mia collaboratrice, di costruirmi una chitarra acustica baritona con corde in nylon, anziché in acciaio come quelle usate in ‘One Quiet Night’ e ‘What’s It All About’. Il mio esordio nel mondo della chitarra baritona è iniziato quando mi sono ricordato di un modo speciale di accordare lo strumento in cui le due corde centrali sono accordate un’ottava più alta, mentre l’accordatura generale dello strumento baritono rimane una quarta o una quinta più bassa. Questo ha aperto un mondo di armonia che fino ad allora non avevo toccato".
Nel nuovo disco c’è pure una versione di ’Here, There and Everywhere’.
"Sono molto legato ai Beatles. Fu proprio dopo averli visti all’Ed Sullivan Show che nel 1964 abbandonai lo studio della tromba per puntare su quello della chitarra".
Se potesse ricreare con l’intelligenza artificiale il sound e lo stile di uno dei grandi musicisti che hai incontrato, con chi le piacerebbe tornare a fare musica oggi?
"Vorrei tanto Charlie (Haden, che considerava un suo mentore - ndr)".
L’anno prossimo ricorre il trentesimo anniversario del tour con Pino Daniele, cosa ricorda di quell’avventura?
"È stata un’esperienza completamente diversa da qualsiasi cosa fatta prima. Per me era incredibile stare sul palco con qualcuno così famoso; Pino non poteva neppure girare in auto senza che la gente di là dal finestrino impazzisse. La cosa grandiosa è che al tempo stesso era pure un artista molto umile. Di quei concerti mi sono goduto davvero ogni secondo".
Quali sono state le altre esperienze italiane speciali della sua carriera?
"Troppe per star qui a ricordarle. Ho detto molte volte che l’Italia è, in un certo senso, un crocevia della mia carriera. E non nascondo che quando inizio a lavorare su un nuovo progetto, su un nuovo gruppo o su un nuovo spettacolo, il primo istinto è proprio quello d’immaginarmi quale accoglienza riceverà in Italia".