È la storia del nuovo Rinascimento dell’università bolognese a fine Novecento, è un omaggio a Fabio Roversi-Monaco che nei suoi quindici anni di rettorato lo ha voluto e reso possibile, è il racconto di un sogno, quello di creare la perfetta Città degli Studi. Come Heidelberg, o anche meglio. Vincenzo Cioni, classe 1940, allievo di Anceschi e Melandri, ex docente di filosofia, ha appena pubblicato un libro per Minerva intitolato ‘Fabianum. La Bologna di Roversi Monaco’ (contenente anche un saggio dell’ex rettore) in cui rivendica l’identità del capoluogo emiliano come Città degli Studi e racconta la sua rigenerazione accompagnata da un raddoppio del numero degli studenti. Una svolta, realizzata anche grazie ai fondi speciali del Nono Centenario e alle risorse del Giubileo, che consentì il recupero fra il 1985 e il 2000 di antichi palazzi e conventi per realizzarvi facoltà e dipartimenti dell’Alma Mater. Un patrimonio culturale d’eccellenza che, sostiene il professor Cioni, deve rappresentare un elemento di forte attrazioni per gli studenti di oggi e che può compensare l’onda turistica in continua espansione. Dal canto suo Roversi-Monaco, in un intervento finale al libro, mette in rilievo come l’acquisizione e la ristrutturazione degli edifici siano andate di pari passo a un rinnovato interesse per i portici, luoghi del cammino comune fondamentali per la nostra università. Quel titolo, ‘Fabianum’, fa riferimento al nome di un futuro possibile studentato sul quale già è circolato qualche progetto. "Voglio far capire – spiega Cioni, che con l’architetto Roberto Scagliarini ha di recente scritto un paio di libri sulla Bologna verde e sulle periferie – che questa è rimasta una città universitaria, nonostante l’assalto dei turisti. Una città ricca, viva, piena di giovani e opportunità".
Professor Cioni, quali sono state le idee che hanno guidato la rigenerazione voluta da Roversi-Monaco?
"La prima scelta decisiva è stata quella di raccogliere le facoltà umanistiche nel centro storico e di usare grandi spazi esterni per quelle scientifiche. Non solo. L’Alma Mater si è estesa in una Romagna in piena crescita economica che fino allora non aveva grande tradizione accademica. Si è trattato di una gemmazione continua".
La grande sfida però è stata quella di riconvertire palazzi nobiliari e conventi per uso didattico?
"Certo. Quando Roversi divenne rettore si trovò un’università senza aule: si faceva lezione al Bestial Market, nei teatri e nei cinema. Il suo primo impegno fu quello di ridare alla città quell’aura che stava perdendo. È cominciata la sistemazioni dei luoghi, delle biblioteche e dei musei come quello di Scienze naturali e di Palazzo Poggi". Quali sono stati i recuperi eccellenti di quella università che voleva essere di eccellenza prima che di massa?
"Penso all’acquisizione di Palazzo Hercolani che ora ospita Scienze Politiche e di Palazzo Marescotti che da federazione Pci è diventato sede del Dams. E poi Palazzo Malvezzi Campeggi centro di Giurisprudenza, il complesso di Santa Cristina valorizzato dalla donazione di Federico Zeri e San Giovanni in Monte, un tempo carcere. Edificio simbolo è la chiesa mai consacrata di Santa Lucia in via Castiglione, trasformata in aula magna secondo modelli innovativi. Non dobbiamo dimenticare che Bologna con i suoi sessanta palazzi senatori era un punto di riferimento del Gran Tour".
Non tutte le azioni però sono andate a buon fine.
"Certo che no. A Villa Pallavicini, contrariamente a quanto è accaduto con Villa Guastavillani, il tentativo non andò in porto. Il rimpianto più grande resta comunque quello legato all’area Staveco dove si sarebbe dovuto accogliere Ingegneria. Io stesso parlai senza successo all’architetto Fuksas di un progetto che collegava la Staveco col Rizzoli".