Reggio Emilia, 1° ottobre 2021 - Andrea Cossarizza, immunologo dell’università di Modena e Reggio Emilia, perché è indispensabile per i fragili la terza dose? "Bisogna tenere presente che il vaccino non è un farmaco che dia una risposta con un rapporto diretto tra dose ed effetto. Un vaccino deve far funzionare il nostro organismo, ed ha tutta una serie di problematiche, che dipendono per esempio dall’età avanzata del ricevente. La risposta immunitaria dell’anziano in generale è sempre ridotta. Ma questo avviene per tutti gli organi e i sistemi: se un centenario corresse i 100 metri tutti d’un fiato, la sua performance non sarebbe quella di una persona di 20 anni. Abbiamo capito che alcune persone o alcune categorie di persone, certamente non solo gli anziani, vanno aiutate perché immunologicamente più deboli di altre. I pazienti che hanno patologie croniche di un certo peso o che assumono farmaci immunosoppressori hanno un sistema immunitario che risponde meno a un vaccino di quello di una persona sana. Di conseguenza, una terza dose, che sarebbe meglio definire ’aggiuntiva’, serve a migliorare la risposta immunitaria di queste persone".
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Cosa suggerisce per aumentare la risposta alla chiamata della terza dose? "Io credo sia arrivato il momento di cominciare a pensare a come passare da quella che è stata una medicina emergenziale di comunità, ovvero il dover vaccinare tutte le persone nel minor tempo possibile, ad una medicina più personalizzata, quella in cui il paziente viene contattato dalla struttura sanitaria, o consigliato dai medici di famiglia, perché ha bisogno di un trattamento aggiuntivo".
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Nessuna corsa alla terza dose? "Sulla dose aggiuntiva, non credo che ci sia l’assoluta e drammatica urgenza perché stiamo per superare la fase emergenziale, ma non c’è neanche da dormire. Certamente va programma con intelligenza e attenzione, come si sta facendo a Modena. Il sistema immunitario di molte persone ha bisogno di vedere di nuovo lo stimolo vaccinale, e questo va fatto. Quando il mio sistema immunitario vede per la prima volta un antigene, cioè riconosce una molecola che appartiene a un patogeno, produce subito anticorpi in grandi quantità. Il vaccino fa esattamente questo. Ma se poi non ci sono più contatti con il patogeno, se la persona vaccinata non incontra più il virus, non c’è motivo di produrre anticorpi e il loro livello plasmatico cala in modo del tutto fisiologico".
Nessun allarme, dunque, se col tempo cala la protezione vaccinale? "Quello che conta è che rimangono perfettamente funzionanti, seppur a riposo, le cellule che producono anticorpi, ma che sono difficili da misurare e quantificare. Il livello di anticorpi ci dà una immagine di quello sta succedendo, ma non ci dice quante cellule sono capaci di produrli. Per misurarle non abbiamo tante possibilità, perché nel sangue – che sostanzialmente è il mezzo di trasporto che le nostre cellule immunitarie utilizzano per andare da una parte all’altra dell’organismo - ce ne sono poche. Stanno negli organi linfoidi secondari, come i linfonodi, la milza, l’intestino. Ci sono dei recentissimi dati su volontari che, a distanza di diversi mesi dalla vaccinazione, si sono prestati a farsi fare una biopsia linfonodale. Si è osservato che nel linfonodo studiato ci sono linfociti capaci di produrre anticorpi con una qualità ancora migliore di quelli prodotti mesi prima. E questa è un’ottima notizia. Ma dobbiamo ancora cercare di risolvere un altro problema, relativo al livello minimo del titolo anticorpale che ci fornisca una protezione. Non abbiamo ancora questo dato".