Non certo il corridore più vincente della storia, sicuramente non un ‘Cannibale’ delle due ruote. Ma Marco Pantani è stato l’ultimo campione del pedale capace di ammantarsi di leggenda, di esaltare le folle a reti unificate. La spietata leggiadria con cui si involava in montagna, non appena la strada accennava a impennarsi, garantiva il compimento di un rito: quello del fuoriclasse che puntando al cielo faceva il vuoto. La bandana che si toglieva prima di piazzare l’allungo avviava la fase mistica della corsa. Ma il ‘Pirata’, per produrre questi prodigi ripetuti e acclamati, poteva contare su caratteristiche fisiche eccezionali. Alto un metro e 72, pesava 56 chili: ed era questo peso piuma in rapporto alla sua sbalorditiva potenza di oltre 400 watt alla soglia anaerobica – il ritmo cardiaco entro il quale il lattato nel sangue rimane costante consentendo sforzi prolungati – a farne un atleta senza eguali in montagna.
Pantani è unanimemente considerato il migliore ‘scalatore puro’ di sempre, anche più di Charly Gaul. E questa sua eccezionalità gli ha consentito di raggiungere le vette più alte nelle corse a tappe, peraltro negli anni ’90 calibrate anche per premiare chi primeggiava a crono, come Indurain.
Nessuno dopo di lui è ancora riuscito a ripetere l’accoppiata Giro-Tour, quella che mise a segno nel 1998. L’asso di Cesenatico ci arrivò in un tempo relativamente breve, dopo essersi rivelato fragorosamente al mondo del ciclismo professionistico al Giro del 1994, iniziato da gregario di Chiappucci alla Carrera. La vittoria da dominatore nella Lienz-Merano, l’apoteosi il giorno dopo nella Merano-Aprica, col Mortirolo, furono l’alba del campione. Il suo secondo posto finale dietro Berzin sancì già la sua grandezza, così come il terzo, subito dopo, nel suo primo Tour: con tanto di record di ascesa al Mont Ventoux.
C’è da chiedersi cosa avrebbe potuto fare ulteriormente nella sua carriera, Marco Pantani, se non fosse incappato ovviamente nel pasticciaccio dell’ematocrito a Madonna di Campiglio nel 1999, ma anche in infortuni così pesanti. Lo scontro con un’auto che gli impedì di prendere parte al Giro del 1995 – ma poco dopo il Pirata riuscì comunque a vincere una tappa al Giro di Svizzera e poi a trionfare nella tappa dell’Alpe d’Huez e in quella con arrivo a Guzet-Neige al Tour – e un altro devastante schianto contro una macchina, alla fine di quell’anno, durante la Milano-Torino, con frattura esposta di tibia e perone della gamba sinistra. Nel Giro del 1997, poi, la caduta con ritiro a causa di un gatto che gli aveva attraversato la strada.
Traumi gravi e numerosi che non gli hanno impedito di conquistare il cuore dei tifosi. Non solo nel suo 1998 d’oro, con Ullrich superato e staccato nella tempesta sul Galibier, ha saputo realizzare imprese che restano scolpite nella storia del ciclismo. L’anno prima, epica la sua seconda vittoria all’Alpe d’Huez, con il tempo record di salita di 37 minuti e 35 secondi.
E nel Giro maledetto del 1999, che stava dominando prima della sospensione, diede vita all'epica rimonta di Oropa: 52 avversari superati e staccati inesorabilmente dopo il salto di catena che l’aveva relegato in fondo al gruppo.
Prove di forza, dimostrazioni di superiorità che ora non si vedono più in questo ciclismo che si gioca tutto sul filo dei secondi e che pure ha interpreti straordinari. Gli ultimi acuti del campione di Cesenatico risalgono al Tour del 2000, la vittoria sul Mont Ventoux dopo il duello con Armstrong e qualche giorno più tardi a Courchevel: ma era un Pirata non più da classifica, che aveva già imboccato la salita più inaffrontabile, quella nel buio dell’anima. I detrattori diranno anche che praticamente mai ha osato misurarsi nelle classiche (giusto una top 10 in una Liegi), ma era nei grandi giri che lui trovava la sua dimensione: fendendo la folla, accorciando con la sua velocità incredibile i tempi di quella che lui definiva ’agonia’, e che per i tifosi era invece gioia pura.