Reggio Emilia, 7 marzo 2024 – Il velo che le copre il capo. Il tailleur, le scarpe col tacco alto, il trucco. E ora anche la toga. Abiti che rivelano l’essenza di una doppia anima e di un lungo percorso. Isma Anwar, 27 anni, è probabilmente la prima ragazza in Italia di origine pakistana a diventare avvocato, portando l’hijab. Ha ottenuto la cittadinanza italiana a 21 anni, è arrivata a Rolo quando ne aveva 5 con la famiglia – papà, mamma, due fratelli e una sorella – e poi si è trasferita a Reggio, dove ha vissuto fino a un anno e mezzo fa per poi trasferirsi a Modena. Ha frequentato l’istituto Scaruffi e nel 2020 si è laureata in Giurisprudenza a Modena. Conosce il punjabi, l’urdu, l’hindi e l’inglese, oltre all’italiano. Nel processo sull’omicidio di Saman Abbas ha coadiuvato come interprete l’avvocato Luigi Scarcella, difensore di Nomanulhaq Nomanulhaq (assolto in primo grado). Dato il suo ruolo, Anwar preferisce non entrare nel merito di quella vicenda processuale.
Com’è nata l’idea di fare l’avvocato?
"Ho ereditato la passione da un mio zio in Pakistan che fa questa professione. Quando dovetti scegliere, mi rivolsi a una mia insegnante che mi sconsigliò Giurisprudenza: mi disse che era troppo difficile, ma non ho mai capito il motivo. Lo percepii come un pregiudizio e da lì mi dissi: ‘Perché no?’. Poi, nel 2018, venni a conoscenza di un episodio particolare. A Bologna un giudice chiese a una ragazza praticante avvocato di togliersi il velo in tribunale: rimasi senza parole. Andai in Inghilterra, ma poi tornai per problemi familiari e ripresi gli studi a Modena. Mi dissi: ‘Vorrà dire che sarò la prima col velo’".
Il giudice di Bologna si era rifatto alla norma secondo cui chi assiste a un’udienza deve avere il capo scoperto. Perché lei porta il velo?
"Il velo mi identifica. Io sono Isma, una ragazza di origine pakistana cresciuta in Italia: sono l’equilibrio tra queste due culture. Se una persona mi guarda dai piedi fino al collo, pensa che io sia italiana, perché i vestiti sono occidentali; se vede sopra dice che sono pakistana. Io sono cresciuta nella cultura pakistana, non me ne vanto ma ne vado fiera: sono contenta di chi sono, non è da tutti avere due culture e poterle bilanciare".
Lei ha dovuto lottare in famiglia per studiare e laurearsi?
"Io sono stata molto fortunata. Mia madre insegnava urdu in Pakistan e a noi figlie ha sempre detto che dovevamo essere istruite e indipendenti. Grazie ai miei genitori ho potuto fare quello che volevo. Ho la patente e l’auto, molti in Italia si sono meravigliati, ma per me è normale: anche le mie cugine in Pakistan guidano".
Si sente integrata nella società italiana?
"Alle elementari e alle medie mi sentivo un po’ diversa. Da piccola ero alla fermata del tram, quando una persona mi urlò: ‘Straniera, devi andare via’. Rimasi immobilizzata e ancora oggi mi fa male pensarci. Quando iniziai a portare il velo, un’amica smise di frequentarmi. Ho sempre cercato le cose più belle in entrambe le culture. Non voglio togliere nulla all’istruzione italiana, ma il rispetto che noi pakistani abbiamo verso i più anziani è molto diverso".
I costumi occidentali le danno maggiore senso di libertà?
"No. Se in Italia ragazzi e ragazze si scelgono i propri compagni di vita, in Pakistan non è così, ma ciò non toglie nulla alla libertà. Non è vero che l’uomo può scegliere e la donna no: in realtà nelle nozze combinate anche l’uomo non conosce la donna. Fa parte della cultura pakistana, ma ciò non significa che sia negativo".
Lei che è anche italiana accetterebbe un matrimonio combinato? Qui si cerca di aiutare le ragazze a non sottostare a nozze forzate o combinate.
"Dipende cosa intendiamo per nozze combinate: per me significa che i genitori ti presentano una persona che ritengono adatta a te, dato che meglio di loro nessuno ti conosce. Tu puoi frequentarla e valutare se va bene, altrimenti dici no. Il matrimonio religioso non è valido se gli sposi non sono d’accordo. Se uno è costretto a sposarsi, non va bene".
Innegabile che in certi contesti ci siano forti pressioni familiari.
"Assolutamente sì".
Dalle cronache sono emerse le storie di donne straniere che hanno pagato con la morte la loro indipendenza.
"Non tutti abbiamo gli stessi diritti nelle famiglie. Io sono stata fortunata, ma non penso di essere l’eccezione. Tuttora in Pakistan ci sono aree dove c’è una mentalità patriarcale, ma dipende dalla famiglia. Forse sarò ottimista, ma credo che in Pakistan le donne riusciranno a emanciparsi, com’è avvenuto anche in Italia".
Cosa possono fare le famiglie straniere in Italia?
"Purtroppo molti genitori, quando decidono di trasferirsi in Italia, non tengono conto del fatto che vanno in un posto con una cultura del tutto differente e non possono pretendere che i figli seguano la cultura pakistana. Alle famiglie pakistane vorrei dire di fidarsi di più dei figli ed essere più sicuri dell’educazione che danno loro".
E le giovani straniere?
"Io sono pakistana e velata, avvocato. Vorrei dire loro che l’importante è impegnarsi per raggiungere i propri obiettivi".