
di Gabriele Papi
Cesena, Anno del Signore 1829. In quel febbraio compaiono sui muri della città scritte beffarde: ‘non più saracche, non più renga. Non più Papa della Genga’, cioè Leone XII deceduto il 10 febbraio. Nelle città dello Stato Pontificio continuava la tradizione delle pasquinate romane: da Pasquino, statua all’angolo di Palazzo Braschi cui venivano affissi epigrammi satirici contro la Curia romana. Pasquino punzecchiò anche il nostro concittadino Papa Braschi, Pio VI: ‘se si mangia non si cena. Mai più Papa di Cesena’.
Al di là dei risvolti anticlericali, quelle scritte irriverenti gettano una luce storica sulla misera alimentazione di gran parte degli abitanti di Cesena: cibi rozzi, grossolani, a buon mercato: cappelletti e manicaretti c’erano già, ma solo per la ristretta cerchia dei nobili e dei benestanti . Le saracche, o salacche, erano pesce di scarso pregio, non fresco, conservate in salamoia. Le ‘renghe’, le aringhe, anch’esse conservate in barilotti al modo arcaico di allora, odore pungente e sgradevole, giungevano dai mari del Nord. ‘Renga arscaldèda e saracca brusèda’, aringa riscaldata e saracca bruciacchiata, sul testo di terracotta.
Si diceva così, un tempo, per indicare i modi di cucinare questi due cibi poveri ma importanti per la povera gente: cibi che aiutavano a riempirsi lo stomaco non solo di pane, radicchi e fagioli, il tutto condito con aceto e un filo d’olio, se c’era. L’aringa poteva essere da uova, la femmina, o da latte, l’apparato del maschio. Un cibo talmente popolare da entrare nel costume e neimodi di dire che ancora tengono botta.
‘Essere da uova e da latte’ indica persone disposte ad abbracciare qualsiasi idea o partito, pur di campare. L’aringa divenne poi oggetto di sfottò tra tifosi nei primi focosi derby di calcio tra Cesena e Rimini, quasi un secolo fa: a bordo campo i riminesi brandivano canne con appese aringhe puzzolenti sul naso dei cesenati che a loro volta tiravano fasci di paglia e di ‘spagnèra’ ai rivali ‘somari’.
Ancora si racconta una costumanza che la dice lunga sulla miseria imperante in parecchie case: l’aringa affumicata, che doveva bastare a tutta la famiglia, appesa a un filo sul focolare che veniva sfregata con due fette di pane per carpire un po’ di umore aspro e saporoso. Non a caso ha titolo ‘aringa ingentilita’ la ricetta (n. 505 del suo trattato) di Pellegrino Artusi che suggerisce di preferire il maschio dell’aringa, di tagliare la testa del pesce, di spianarlo e di metterlo in infusione nel latte bollente lasciando bollire per otto e dieci ore… Ma L’Artusi scrive il suo best seller a fine Ottocento un pubblico borghese che ha già la pancia piena e una cucina attrezzata.
Oggi si straparla di cibi ‘d’una volta’: espressione che è passata a un marketing commerciale spesso facilone. In realtà, un tempo, le forme dell’alimentazione popolare adempivano a funzioni nutritive sostanzialmente estranee all’edonismo privato e sofisticato del nascente gusto borghese. Magistrale, al riguardo è la risposta che Bertoldo diede al Re che gli chiedeva quale fosse il giorno più lungo che ci sia: quello che si sta senza mangiare.