GABRIELE PAPI
Cronaca

Quegli scherzi da prete tra dadi e reti

Antichi modi di dire popolari si intrecciano con i giochi di società dell’epoca e arrivano quasi intatti fino ai nostri giorni

Quegli scherzi da prete tra dadi e reti

di Gabriele Papi

Carnevale, ogni scherzo vale. "Tira la rèda che i pasa i sturàn": tira la rete che passano gli storni. Era il grido beffardo, lo sfottò lanciato dai ragazzacci anticlericali di Romagna (anche a Cesena) da dietro le siepi o i cantoni cittadini, rivolto ai seminaristi in passeggiata che con le loro tuniche nere sembravano proprio un bel branchetto di storni in volo radente. Dovere di cronaca chiede di raccontare il secondo tempo che a volte capitava. Ovvero: i seminaristi, stufi delle ribalderie, non sempre porgevano l’altra guancia. Quindi si tiravano su le sottane e scattavano in rincorse rusticane, tra vivaci scontri dialettici ed anche scapaccioni evangelici. Ultima gride dalla Romagna di ieri. Ancor più curioso il fatto che il modo di dire popolare "tirare la rete per pigliare storni" ha antiche radici. Lo conferma questo gioco di società, con dadi (che riproponiamo ai lettori) stampato a fine 1600 in Bologna che come la Romagna era sotto lo Stato Pontificio, ideato da un singolare e prolifico artista, Giuseppe Maria Mitelli. Costui, pittore di discreto rango (fu allievo anche del Guercino) ad un certo punto optò per altre attività grafiche di cui cominciava ad esserci buona richiesta: dipinse insegne di osterie, realizzò su commissione scorci e mestieri di vita cittadina, si specializzò nell’ideazione di giochi di società (gli antenati del moderno Monopoli and company) che venivano stampati in grandi fogli e poi venduti da ambulanti durante le fiere e i mercati non solo bolognesi ma romagnoli. Gli ambulanti vendevano anche i dadi, realizzati artigianalmente in osso.

Va detto che lo Stato Pontificio proibiva i giochi d’azzardo, tuttavia consentiva - come valvola di sicurezza- i giochi di società con piccole somme in palio. Interessante, inoltre, la cura dei particolari nella rappresentazione del Mitelli. Ai suoi tempi c’erano già i primi schioppi per la caccia, ma erano costosi, roba da ricchi. Molto più diffusi, e familiari nelle campagne di allora, erano altri mezzi: tra cui la caccia con le reti, l’uccellagione. La caccia fu situazione del quotidiano nella società di ieri. Ed il disegno centrale illustra appunto una tesa con il tenditore che sta per far scattare le reti su uno spiazzo in cui gli storni sono attirati da richiami vivi in gabbia e zimbelli ingannevoli. Sistemi simili sono rimasti in auge sino a pochi decenni fa nelle larghe romagnole fino al divieto dell’uccellagione a fini di caccia. Inoltre il termine ’uccellare’ (d’origine venatoria) nel senso di beffare, ingannare ha una lunga storia nella letteratura italiana, a cominciare dal Boccaccio: nelle sue novelle giocose e irriverenti gli scherzi da prete fioccano. E poiché le parole antiche hanno talvolta sette vite come i gatti, ecco che il verbo ’uccellare’ è tornato a riaffacciarsi nelle pittoresche e creative cronache calcistiche di uno dei più bravi giornalisti sportivi del recente passato: Gianni Brera. Esempio del suo stile: il centravanti ha ’uccellato’ il valoroso portiere avversario con un perfido pallonetto , o un tiro mancino che si è insaccato nella rete, proprio come gli storni e altri uccelli migratori tratti in inganno. E infine ancora oggi è corrente il modo di dire: "giocare un brutto tiro…".