Cesena, 1 aprile 2019 - «Quando un branco di lupi ulula, la loro immagine nascosta nel buio della notte e nel buio ancor più buio della nostra anima, è qualcosa di infinitamente potente». Una giovane donna bella e piena di passione, gli occhi gialli di un lupo con le orecchie pettinate dal vento, il naso verso le stelle concentrato negli odori della foresta, ed ecco che scatta un immaginario da leggenda. Eppure quella giovane donna, pur intrisa di poesia e sensibile al richiamo della foresta, è una scienziata, una studiosa rigorosa con le radici a Bagno di Romagna. Mia Canestrini, 37 anni, è la «lupologa» più ricercata del momento; e non solo per il suo decennale impegno nel Parco delle Foreste Casentinesi sulle tracce dei lupi, ma perché quell’esperienza che «l’ha rapita tra i crinali scoscesi, che somigliano a un’immensa coperta di lana verde bottiglia, nelle cui pieghe, silenziosi, stanno i lupi», l’ha raccontata, con la grazia di chi sembra nato con la penna in mano, in un libro di successo: «La ragazza dei lupi» (Piemme editore).
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Cosa l’ha spinta a mettere la sua esperienza di ricercatrice in un libro divulgativo ma anche poetico? «La mia passione per gli animali e per la scrittura. Anziché scrivere un libro scientifico, mi è parso più interessante tracciare un punto di vista femminile dopo una lunga esperienza in un ambiente prettamente maschile, e spesso anche un po’ castrante».
Ci sono molti lupi nel nostro parco regionale dell’Appennino? «È una delle zone d’Italia che per prima è stata ricolonizzata dai lupi. Le foreste di questo parco sono luoghi perfetti per loro. Sono zone selvagge ricche di ungulati, così la popolazione dei lupi dell’Appennino romagnolo è stabile e in buona salute».
Per qualche tempo ha testato la presenza di un branco di lupi nell’Appennino tosco-emiliano. Che ne è stato di loro? «Non si riesce più a rilevarli, vuol dire che è successo qualcosa. Quando vivono in branco sono estremamente territoriali. Se si trattasse di un unico individuo potrebbe anche essersi allontanato da solo, ma quando sparisce un branco di 6 o 7 individui c’è la mano dell’uomo».
Lei dice: il lupo non è affettuoso, non è innocente, non è cattivo, non è violento. Cos’è allora? «È un predatore, quindi suscita in noi sentimenti di paura, naturali davanti ad animali selvatici, ma lui non sa di essere il lupo... È neutro, agisce per istinto».
Cosa può succedere a un uomo ferito che si trova da solo in una foresta dove vivono i lupi? «Nulla. In Italia ci sono più di duemila lupi, e gli incontri che il lupo può fare con l’uomo sono infiniti. Se fossimo potenziali prede ogni anno morirebbero migliaia di persone. Eppure i lupi ci sono, magari ci guardano e noi non li vediamo. Se volessero, potrebbero ucciderci ogni giorno».
Cos’è che ha fomentato l’atteggiamento di paura verso i lupi? «Credo che la trasformazione del lupo in animale crudele nasca dall’esigenza di raccontare delle storie. Anche il Cristianesimo vi ha contribuito, identificandolo con il demonio e mostrando come il bene, ossia i santi, potessero dominare il male, ossia il lupo».
Le pecore, però, dei lupi devono avere paura eccome: come si fa a difenderle? «Scontato che l’allevatore non possa amare il lupo, poiché i loro interessi non collimano, si possono adottare misure di prevenzione che funzionano: il cane di protezione e la recinzione elettrificata. Dove sono tornati i lupi, le pecore non possono essere lasciate alla stato brado. È chiaro che per l’allevatore, che però spesso riceve aiuti dalle amministrazione pubbliche, significa un impegno economico».