GABRIELE PAPI
Cronaca

In viaggio tra i nomi dei borghi Quel ponte canta come il cucco

Da Roversano a San Giorgio passando per Taibo: quando il dialetto mette lo zampino nei toponimi

In viaggio tra i nomi dei borghi Quel ponte canta come il cucco

di Gabriele Papi

Continua su gentile richiesta degli amici lettori il viaggio sul perché degli antichi nomi dei nostri borghi. I toponimi (i nome dei luoghi) furono forgiati nel latino medievale che risente degli influssi etruschi, osco- umbri, gallici, bizantini: le parlate delle antiche genti che hanno abitato la nostra terra. Lo stesso crogiolo da cui sono nate anche la nostre parlate dialettali. Il nome dialettale dei borghi , come certe conchiglie in cui risuona la musica del mare, riflette ancora in diversi casi, e in modo sorprendente, l’antica denominazione. Gli uomini, si sa, passano e vanno: ma resta il nome antico dei borghi, anche se non lo capiamo più come lo si capiva un tempo. Prendiamo il caso di Roversano che fu Comune fino al 1923. Di prima botta come origine del nome sembra richiamare rovere, un tipo di quercia: ma è solo un’assonanza. Eloquente invece la citazione d’un documento del 1371, dove si legge: “Riversano et valle S. Vitoris”,dal latino “rivertere”; nel senso di opposto, di fronte a San Vittore. Una denominazione geografica che ritorna nel nome dialettale: “Arvarsàn”, dall’altra parte. E’ il caso anche del nome del borgo di Taibo, presso Mercato Saraceno: dal latino “teba-ae”, tipo di colle: ”Al tebi” è, guarda caso, il nome dialettale del borgo. Significativa vocazione agricola antica: la vicina località di Panighina (comune di Bertinoro). Da panico, il cereale minore, in dialetto “panìg”. Una zuppa di panico, miglio, farro (occhio: la parola farina viene da farro) era il mangiare quotidiano dei contadini, insieme al pane fatto spesso con cereali minori: il frumento era roba da “signori”. Rara sulla tavola la carne che quando andava bene veniva da piccola selvaggina presa con le trappole e talvolta il pesce, catturato nei torrenti e nelle zone palustri con i cogoli, reti a sacco di giunchi propizie in particolare per i buratelli, le anguille giovani un tempo assai abbondanti.

Rara anche la frutta. Unica eccezione i fichi, che potevano anche essere conservati. A proposito di fichi: Benvenuto Rambaldo da Imola, commentatore della Divina Commedia di Dante Alighieri nel citare Cesena la elogia soprattutto per i suoi gustosi fichi: evidentemente Rambaldo era un “lovarone”, un goloso. Non a caso Porta Figarola era il nome di un’antica Porta di Cesena, cosiddetta per la presenza di numerose di fico: nome che conservò sino al 1584 quando fu denominata Porta di Santa Maria, poiché guardava verso il santuario della Madonna del Monte. Sempre in tema di nomi naturalistici è curioso il perché della denominazione Ponte del Cucco, frazione vicina a San Giorgio di Cesena. Se il termine “cucco” in collina e montagna indica il cocuzzolo, la cima, qui nella bassa tutti gli indizi portano invece al cuculo, “kòk” in dialetto, uccello migratore che giunge da noi ai primi d’aprile, famoso per il suo canto inconfondibile e ritmico: “hu-hu”. Oltre a deporre il suo uovo nei nidi altrui, il cuculo ha un’altra specializzazione oggi nota: è specie che predilige un certo tipo di albero o di boschetti. Invece, i nostri antenati sentendo sempre cantare il cuculo dallo stesso albero pensavano che il cuculo fosse il Matusalemme dei pennuti. E’ nato da qui il modo di dire ancora corrente: vecchio come il cucco.