REDAZIONE CESENA

I ‘semi’ delle carte sono lo specchio della società

Secondo la tradizione rappresentano le classi sociali medievali. In Romagna i predicatori tuonavano contro ‘la bibbia del diavolo’

Carte

Lettori curiosi ci chiedono: carte da gioco romagnolo, perché coppe, bastoni denari e spade. Cosa simboleggiavano? Bella domanda. Proviamo a rispondere, andando in fila. Le carte romagnole appartengono alla storica famiglia delle carte da gioco italiane: hanno 16 consorelle regionali, tutti mazzi da 40 carte da gioco, tutti con gli stessi semi, denominazione tecnica dei simboli che le specie: coppe, bastoni, denari e spade, differenziandosi solo per il diverso tipo di disegno, a seconda dei diversi influssi storici: ma i valori di gioco restano inalterati (vedi, a mo’ di esempio, la fotografia a corredo).

Invece: cuori, quadri, fiori, picche sono i semi delle carte da gioco francesi, poi internazionali. Ma restiamo alle carte italiane. Vantano sette secoli di storia. Con i loro semi ‘araldici’ e le raffigurazioni medioevali sono un caso pressochè unico di resistenza ai cambiamenti, profondamente radicate nel costume popolare. Perché? Perché i giocatori, ieri come oggi, pensano al gioco: non vogliono distrazioni.

L’iconografia delle carte è una delle cose più antiche e immutabili che continuiamo ad usare. In ogni caso, per non eludere la domanda che ci è stata rivolta: il dibattito sulla simbologia sociale e allegorica delle carte da gioco è antico quasi come le carte stesse. L’ipotesi più probabile - stiamo parlando della prima raffigurazione nel 1400, quella che poi ha fatto scuola- è che raffigurassero le classi sociali di allora. Ovvero: coppe il clero, bastoni i contadini, denari i mercanti, spade i cavalieri. Molteplici, come si sa, sono i tipi di gioco che si possono svolgere con lo stesso mazzo di carte. Compresi i solitari e compreso il gioco d’azzardo che è vecchio come il cucco: già durante il 1400 i predicatori tuonavano, anche in Romagna e inutilmente, contro le carte da gioco definite la ‘bibbia del diavolo’.

A proposito di carte e di bari: ecco un gustoso esempio spiluccato da un piccolo classico della letteratura romagnola. ‘L’Osteria del Gatto Parlante’, di Francesco Serantini, Premio Bagutta 1952. In quell’osteria, al confine tra la Romagna e la Repubblica di San Marino, ne capitavano di tutti i colori. E dunque: una sera il Re di Coppe, mercante e imbonitore, e i suoi compari tra cui Tortorina, bravissimo a fare il cieco ma che ci vedeva bene, intortano un forestiero che sembra un pollo da spennare. Si comincia con una partita a scopa: i segni impercettibili del povero cieco Tortorina, all’angolo del tavolo, cominciano a dare frutti truffaldini. Poi, in un crescendo di colpi di scena, dalla scopa si bassa alla ‘bassetta’, gioco d’azzardo croce e delizia dei romagnoli di ieri.

A mezzanotte il Re di Coppe sta vincendo una bella somma: disposto a continuare. Ma il forestiero abbozza: è tardi, si rifarà un’altra volta, meglio andare a dormire. E onora sull’unghia le sue puntate, con banconote che il Re di Coppe intasca con noncuranza. Gran bevuta finale. Offre ancora il Re di Coppe: che la mattina dopo avanti l’alba, con il fiato grosso e la faccia torbida, torna all’osteria chiedendo del forestiero. Che si era già involato, dopo aver banchettato gratis e aver rifilato al Re di Coppe banconote fruscianti, ma false. Della serie: chi la fa, l’aspetti.