
Cesena, tre secoli e più fa: ex voto, Abbazia del Monte
Libertà di commercio: politiche autarchiche e dazi commerciali portano sventure economiche e sociali. E’ la sorprendente ‘lezione’ che un gesuita spagnolo stabilitosi a Cesena nel lontano 1771 propone all’ addormentata classe dirigente della nostra città allora dominata dallo Stato Pontificio: una comunità oppressa da ricorrenti carestie causate non solo da emergenze climatiche. Che ci faceva un gesuita spagnolo in città? Riassunto delle puntate precedenti. La Compagnia di Gesù, potente, colta e cosmopolita, era una spina nel fianco di cattolicissimi, in particolare Spagna e Portogallo: perché, ad esempio, nelle colonie sudamericane i gesuiti stavano volentieri dalla parte degli indios nativi, non dei ‘caballeros’ conquistatori. Dunque la Compagnia era stata sciolta, al momento, d’imperio. Ed i gesuiti scacciati avevano trovato rifugio nello Stato Pontificio. A Cesena, ad esempio, si erano stabiliti alcuni illuminati gesuiti tra cui lo spagnolo Lorenzo Hervas che di là a poco diede alla stampe un acuto e analitico testo: ‘Memoria dei vantaggi e degli svantaggi dello stato temporale della città di Cesena’ (1776).Uomo di vasta cultura, aperto alle sfide della modernità, Hervas era rimasto stupito dell’arretratezza della agricoltura cesenate, pur in una terra rinomata per la sua fertilità sin dai tempi antichi: arretratezza dovuta non tanto ai contadini (analfabeti e sempre in debito con i loro padroni, cioè i nobili) quanto e soprattutto all’immobilismo del nobilato locale, legato a doppio filo con lo stato pontificio, che si limitava a vivere di rendita terriera, tra ‘allegrezze’ appannaggio di pochi, senza pensare a incentivare attività innovative che oggi diremmo imprenditoriali o commerciali: iniziative, oltrettutto, che li avrebbero arricchiti e che sarebbero tornate a vantaggio diffuso dell’intera comunità. Illuminante una citazione di quel testo lungimirante (la sua ristampa, volendo, è in biblioteca): ‘non è giusto che 999 persone patiscano per il vantaggio di una persona sola’. Naturalmente, i consigli del bravo gesuita restarono lettera morta nel soporifero ceto dirigente locale ai cui occhi miopi Hervas apparve come un simpatico ‘extraterrestre’, da non prendere sul serio. La lucidità di quelle analisi trovò conferma anni dopo: ad esempio nelle drammatiche carestie che colpirono Cesena e non solo, nel 1816/ 17. Fame, tumulti, disperazione, Cesena invasa da poveri dalle campagne e dalle montagne. ‘Un numero straordinario di poveri - raccontano le cronache del tempo- i cui pianti e lamenti commuovevano persino i sassi’. Nel 1816 le autorità cittadini provarono a placare la disperazione con un servizio di ‘zuppe pubbliche’ che però costava un baiocco, la moneta più piccola (avevano già inventato il tickett). L’anno dopo non si trovò altro rimedio che espellere da Cesena poveri e mendicanti non cesenati giunti dal contado e dai monti. Intanto metteva radici il fenomeno del brigantaggio che avrebbe poi afflitto a lungo le Romagne. C’è un’altra faccia della nostra storia che spesso rimane in ombra nelle attuali rievocazioni del nostro passato cittadino: storie del quotidiano che vanno invece raccontate. La storia non è un festival di gala: né ieri, né oggi.