Parlano i dati, il sindacato rincara e il direttore generale dell’Ausl riassembla i pezzi in un puzzle che più diverso non si può. Il tema è quello delle dimissioni volontarie dei dipendenti cosiddetti d’area (infermieri, tecnici sanitari e non, assistenti socio sanitari, riabilitatori, autisti, amministrativi) che lasciano il lavoro benché assunti a tempo indeterminato - circa 11 mila su 16.664 mila in totale dei dipendenti - dall’Azienda Sanitaria della Romagna. Meglio niente, o meglio altro, piuttosto che un lavoro nella sanità pubblica, sembrerebbe la sintesi. Di certo c’è che in totale in Romagna, nel 2024, se ne sono andati 661 dipendenti (331 per pensionamento, 255 per dimissioni volontarie, 75 per mobilità), di cui 104 dal cesenate, 111 dal forlivese, 176 dal riminese, 270 dal ravennate. Ma ecco ciò che desta maggiore sorpresa: il numero di chi rassegna dimissioni volontarie. A Cesena (tra Bufalini e altri ospedali pubblici) sono stati 32 (30,8%), a Forlì 47 (42,3%), a Rimini 64 (36,4%), a Ravenna 112 (38,4 %). In tutta la Romagna i numeri di chi ha rinunciato al lavoro, hanno pesato per il 38,6% sul totale di coloro che hanno lasciato l’azienda nel 2024. Nel 2023 il dato totale era pari a 611 persone, con 336 pensionamenti, 212 dimissioni volontarie e 63 per mobilità. In quel caso, quindi, le dimissioni volontarie furono il 34,7%. Tra 2023 e 2024 dalla sanità cesenate se ne sono andati volontariamente 72 dipendenti. La cifra più alta riguarda gli infermieri: 38.
Dove sono andati e perché hanno rinunciato al contratto a tempo indeterminato? "C’è chi va verso il privato, chi apre partita Iva ma c’è anche chi cambia mestiere deluso da quello che trova dopo la formazione, sia in merito allo stipendio che alla valorizzazione della professione" commenta Francesca Batani, infermiera, referente romagnola del battagliero Nursing Up, in procinto di entrare in mobilità per occuparsi solo del sindacato che rappresenta. "L’esodo non riguarda solo i giovani, che fanno in tempo a cambiare strada - afferma Batani -. Ci sono anche infermieri con 20 anni di esperienza che non ce la fanno più". Cos’è che pesa nella quotidianità? "La fatica di tappare i buchi dell’organizzazione, la mancanza di prospettive di carriera nonostante la formazione fatta a proprie spese, l’atteggiamento vessatorio dei vertici che chiedono l’impossibile ed una reperibilità oltre il dovuto. Ma c’è anche il demansionamento costante". "La frustrazione più viva, infatti - aggiunge Francesca Batani - deriva dal fatto che, alla fine, non si riesce a prendere in carico il paziente, valutare i suoi bisogni e pianificare il suo percorso, poiché si viene distratti e indirizzati continuamente verso altre mansioni per sostituire chi non c’è o per parare qualche altra emergenza. Ultimamente, addirittura, si fa carico all’infermiere della mancanza di copertura per alcune situazioni. Dovremmo essere noi ad organizzare le presenze necessarie".
"E’ questa - evidenzia la referente di Nursing Up - una criticità che ci sta portando davanti al giudice del lavoro contro l’Ausl poiché non è questa la funzione di un infermiere. I lavoratori della sanità sono sempre di meno ma di contro cresce il numero dei dirigenti. Una canoa con tanti comandanti e uno solo che rema, cosicché c’è qualche operatore che ha oltre 140 giorni di ferie non godute". "La nostra - chiosa - è una professione violentata, che ha bisogno di essere difesa".