Bologna, 24 luglio 2024 – Le accuse da cui tutto era partito erano pesantissime: bancarotta fraudolenta per distrazione, messa in atto attraverso un’operazione di scissione societaria anomala, in un contesto di crisi aziendale poi sfociata nel default del Gruppo. Eppure, questa montagna, ossia l’inchiesta che aveva al centro il crac Maccaferri, ha partorito un topino: a quattro anni esatti dal maxi-sequestro di quote societarie effettuato dalla Finanza, la vicenda penale si è chiusa per i sei imputati - tutti membri della famiglia di imprenditori bolognesi - con un patteggiamento a pene pecuniarie molto leggere, comprese tra i 27mila e i 42mila euro.
Un risultato arrivato a seguito del lavoro delle difese che, nel corso dell’inchiesta, sono riuscite a fornire elementi tali da far sì che l’accusa per i sei a giudizio venisse riqualificata, passando da un’ipotesi di bancarotta fraudolenta a un’ipotesi di bancarotta semplice da aggravamento del dissesto, legato al ritardo nella richiesta della procedura di fallimento.
Nell’inchiesta esplosa nell’estate del 2020, coordinata dall’aggiunto Francesco Caleca e dal pm Nicola Scalabrini, erano ancora coinvolti l’allora presidente del Cda della Seci, holding del gruppo Maccaferri, Gaetano Maccaferri, e i fratelli Alessandro Maccaferri, vice presidente, Antonio Maccaferri, consigliere del Cda e Massimo Maccaferri, socio come le cugine Angela Boni e Raffaella Boni.
A difendere i quattro fratelli, il professor Tommaso Guerini, il professor Vittorio Manes, il professor Nicola Mazzacuva, il professor Luigi Stortoni e il professor Gaetano Insolera, mentre le due cugine erano rappresentate dall’avvocato Marco Calleri del foro di Milano.
In questi quattro anni i legali sono riusciti a far emergere elementi tali da riportare l’accusa nell’alveo di un’ipotesi colposa. Scrive infatti il gip Ziroldi: "L’attività d’indagine e le argomentazioni difensive giustificano l’inferenza secondo cui la segregazione degli asset patrimoniali non ha in fatto potuto produrre alcun effetto distrattivo, siccome neutralizzato dalla responsabilità solidaleprevista ex lege , in concreto rilevata anche in sede di omologa del concordato preventivo con assuntore di Sei". Concludendo così negli scorsi giorni per una sentenza lieve per gli imputati. "La vicenda – spiegano i legali –, caratterizzata da grande complessità tecnica, anche alla luce di un articolato confronto con le difese, ha visto cadere l’originaria ipotesi di bancarotta fraudolenta, e si è conclusa con un forte ridimensionamento delle contestazioni, che ha consentito una definizione concordata del procedimento, per un’ipotesi meramente colposa, con l’applicazione di una sanzione pecuniaria".
L’accusa su cui ruotava l’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza riguardava distrazioni di beni immobili per 58 milioni di euro: secondo gli inquirenti, nel 2017 (anno in cui si concentravano gli accertamenti delle Fiamme gialle) sarebbe stata effettuata dal Gruppo una scissione di ramo d’azienda immobiliare, realizzata da Seci in favore della neo costituita Sei Spa, controllata dagli imputati.
Qui sarebbero confluiti un immobile di Zola delle Officine Maccaferri e gli immobili (per 66 milioni) della Sieci, dopo averne acquistato le quote, e di altri immobili a Borgo Panigale e Bentivoglio, della Fortune 5 e della Samp Spa. Un ‘rastrellamento’ che, per l’accusa, sarebbe in ultima istanza servito a salvaguardare i beni da eventuali aggressioni patrimoniali. Gli sviluppi d’indagine si erano quindi concretizzati nel luglio 2020 nel sequestro preventivo, disposto dal gip Alberto Ziroldi, del capitale sociale e del relativo patrimonio della Sei Spa, pari a quasi 58 milioni di euro. Una ricostruzione contestata dalle difese, che avevano sin da subito ribadito l’assoluta correttezza dell’operato dei fratelli Maccaferri.