Bologna, 22 gennaio 2021 - Il possibile legame (poi ampiamente accertato in sede giudiziaria) fra i fratelli Savi e l’eccidio al Pilastro, poteva essere provato già nel 1991. A rivelarlo oggi sono due documenti inediti per l’opinione pubblica – scoperti dallo scrittore Massimiliano Mazzanti –, tra loro contrastanti e che non possono che amplificare i misteri che, a 30 anni di distanza, avvolgono ancora l’orrore della Uno Bianca. Riavvolgiamo il nastro.
E Roberto consegnò il Beretta ’sbagliato’ per depistare i colleghi della Questura
L'eccidio
E’ il 4 gennaio 1991, le 22 scoccate da poco, quartiere Pilastro: l’auto dell’Arma, con a bordo Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini, è di pattuglia tra i palazzoni del quartiere. Davanti trova una Uno Bianca, è l’inferno di fuoco. Andrea, Mauro e Otello, 64 anni in tre, restano sull’asfalto, trucidati. La mano è quella della banda della Uno Bianca che sta mietendo terrore in Emilia Romagna e Marche da giugno ’87. Si cercano le armi, innanzitutto due fucili: il Sig Manurhin e il Beretta AR-70. Nella nostra regione ce ne sono alcune decine, tutte regolarmente denunciate e uno dei detentori si chiama Fabio Savi, fratello dei poliziotti Roberto e Alberto.
Già nel ’91
A confermarlo è una nota del vicequestore di Rimini, Oreste Capocasa, datata 2 febbraio 1991, in risposta a una richiesta che gli arriva dalla Criminalpol: "Si comunica – scrive il dirigente – che dagli accertamenti esperiti, è emerso che presso l’armeria Savini di Rimini, nel periodo 1988-1991, sono state vendute le seguenti armi...". Tra le quali "una carabina semiautomatica Sig. Manuhrin cal. 222R", venduta "il 18 gennaio 1989 a Fabio Savi, nato il 22 aprile 1960 e residente a Villa Verucchio". Poi l’aggiunta: "L’arma è stata denunciata ai CC di Villa Verucchio e risulta ancora in carica al predetto". Passano gli anni, la banda commette altri crimini, la pista investigativa porta ai fratelli Peter e William Santagata, Massimiliano Motta e Marco Medda – portati a processo, poi assolti e risarciti dallo Stato –.
La svolta
Ma non saranno loro i killer sanguinari, capaci di 24 morti e oltre 100 feriti. La svolta arriva il 22 novembre 1994, grazie alle intuizioni di Luciano Baglioni e Pietro Costanza, due poliziotti del commissariato di Rimini: in manette finiscono così, uno dopo l’altro, Roberto, Fabio e Alberto Savi. Due servitori dello Stato, mentre Fabio, poliziotto mancato per un difetto della vista, di professione fa il camionista.
"Arma inedita". Fioccano le confessioni, il loro arsenale viene sequestrato. Il 18 gennaio 1995, la Digos di Bologna scrive alla Dda dando seguito a una richiesta di ulteriori indagini dopo le deposizioni dei Savi. Con particolare riferimento all’omicidio del Pilastro e ad altri cinque fatti di sangue (tra cui gli omicidi Stasi, Erriu e Beccari). Ed è qui che emerge il giallo sul fucile, quello che nel ’91 venne segnalato da Capocasa. Gli allora dirigenti Digos, scrivono che le "perizie balistiche sulle tre armi di proprietà dei Savi" hanno confermato la loro responsabilità al Pilastro. In particolare, si badi bene, "il fucile Sig Manhurin cal. 222, fino ad ora inedito, indicato specificamente da Roberto Savi, prima dell’esperimento peritale, come una delle armi che spararono al Pilastro e nella rapina alla coop di via Gorky". Dunque, quattro anni dopo la segnalazione del vicequestore di Rimini, per i colleghi bolognesi il Manhurin cal. 22 risulterebbe "inedito". Come è possibile la distonia tra le due carte? Errore, svista o che altro?
L’esposto
A chiederselo è Massimiliano Mazzanti, autore del libro Uno Bianca, che ieri ha depositato un esposto in questura indirizzato al procuratore capo. "Chi ordinò, – si chiede nell’atto – e con quale atto di delega, di indagare sui possessori dell’arma? Quel che appare sconcertante ancora oggi, è che già a poche settimane dall’eccidio del Pilastro, chi avrebbe dovuto mettere fine alla tragica epopea dei Savi possedeva riscontri che portavano direttamente ai loro nomi nell’incrocio di tutte le tre tipologie di armi usate nella strage".