Concorso in omicidio volontario: questo il titolo di reato che la Procura di Bologna – procuratore capo Giuseppe Amato e aggiunto Lucia Russo – ha apposto al fascicolo aperto sui delitti della banda della Uno Bianca. Altri – depistaggio, banda armata – sarebbero ora comunque prescritti. Non solo i tre fratelli Savi e Marino Occhipinti, dunque, sarebbero dietro i 24 morti mietuti dal 1987 al 1994 dalla banda di poliziotti (tutti tranne Fabio Savi) formata anche da Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli: Ros e Digos sono al lavoro per capire chi altri abbia agito con loro. E se dietro la Uno Bianca ci fosse davvero solo “la targa”. A 33 anni esatti oggi dalla strage del Pilastro, che costò la vita ai giovanissimi carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, la nuova inchiesta procede spedita. Questa è nata dall’informativa dei carabinieri sull’intercettazione di Marino Bersani, il padre della ’superteste’ del Pilastro Simonetta, che accusò i Santagata della strage, e su documenti riguardo l’arma che sparò, schedata già nel ’91 tra i possedimenti di Fabio Savi, oltre che dal lungo esposto dei parenti delle vittime che, a maggio scorso, tramite gli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser hanno chiesto di fare luce su eventuali mandanti, complicità e coperture alla banda ’sfuggiti’ alla prima inchiesta.
di Federica Orlandi
Bologna, 4 gennaio 2024 – “Cosa ci aspettiamo da questa nuova inchiesta sulla banda della Uno bianca? Semplicemente, la verità". Ludovico Mitilini, il fratello del carabiniere Mauro che, esattamente 33 anni fa oggi, morì a poco più di venti nell’agguato della banda della Uno Bianca noto come strage del Pilastro, è il primo dei firmatari dell’esposto di 250 pagine depositato lo scorso maggio alla Procura di Bologna (ma anche alla Procura nazionale antiterrorismo e a quella di Reggio Calabria, che indagò sulla Falange Armata) per conto di molti familiari delle vittime della banda e redatto dagli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser.
Mitilini, oggi sono 33 anni dalla strage del Pilastro. La nuova inchiesta sulla banda potrebbe portare luce su tanti punti oscuri da voi sottolineati. Cosa spera emerga?
"Per prima cosa, la presenza di complici ’sfuggiti’ alla prima inchiesta. Complici che pure risultano da diverse testimonianze, da segnalazioni, da incongruenze. Confido poi che nuove testimonianze possano dare luce alle tante ombre che aleggiano su questa vicenda, non chiarite nel corso del processo del 1997".
Ossia?
"Quella della Uno bianca è stata definita una banda di rapinatori. Eppure non si è mai comportata come tale. So bene che i rapinatori hanno come scopo principale il lucro, quello insomma di massimizzare i profitti con meno rischi possibili di essere catturati e per la propria incolumità. Ecco, i Savi si comportavano all’opposto: ci tenevano a lasciare una firma, perciò utilizzavano sempre la stessa auto, la Uno bianca appunto. Specialmente nei loro colpi più cruenti".
Come il Pilastro.
"Tantissimi punti restano oscuri di quella notte. Un esempio: i Savi erano armati fino ai denti, travisati, avevano con sé persino il cherosene con cui bruciare l’auto usata dopo la strage. In una delle tante versioni diverse che fornirono, dissero: volevamo rubare delle auto. Conciati così? Poi affermarono che volevano rubare le armi ai carabinieri, cosa che non fecero. È il movente della sentenza del 1997. I Savi avevano un arsenale di armi tra le più sofisticate e potenti. E come avrebbero potuto sottrarre le armi ai carabinieri se non compiendo una strage? In quel periodo la banda compì azioni di violenza inaudita e senza scopo di lucro, perché avrebbe rischiato tanto per nulla? Infatti Roberto Savi nel conflitto a fuoco al Pilastro rimase ferito".
C’è poi la questione del «quarto uomo», che arrivò a soccorrere appunto Savi rimasto ferito, contattato pare tramite una cabina telefonica.
"Ecco, costui è rimasto sconosciuto. Eppure andò a prendere i tre fratelli al Pilastro a bordo di un’Alfa 33, notata da diversi testimoni già con i Savi a bordo. Quell’auto non è mai stata ritrovata, a differenza delle altre coinvolte nelle azioni messe a segno dalla banda. Un altro punto buio".
Ci fu poi la questione Santagata, con la misteriosa telefonata del padre di Simonetta Bersani ora al vaglio degli inquirenti: cosa ne pensa?
"Né Simonetta Bersani, né Annamaria Fontana (la prima indicò la banda dei giovani malavitosi pilastrini Santagata come autori della strage del Pilastro, la seconda portò all’arresto di una banda di pregiudicati catanesi per gli assalti ai supermercati Coop, ndr ) hanno mai pagato per avere depistato le indagini. Mi auguro che in questi nuovi accertamenti non sia trascurato questo elemento. Anche se devo dire una cosa".
Prego.
"Nel processo ai Santagata, si fece una ricostruzione della dinamica della sparatoria poi completamente stravolta da quella nel processo alla banda della Uno bianca. Ecco, a me convinceva più la prima versione, peraltro supportata dagli esiti della perizia balistica, e cioè che un uomo scese dalla Uno, con una pistola calibro 38 sparò all’autista e ferì gli altri due carabinieri, poi risalì a bordo e proseguì nell’azione di morte con gli altri complici, mentre l’auto andava a sbattere contro i cassonetti. Nel 1997 invece si stabilì come Roberto Savi avesse sparato mentre era ancora a bordo dell’auto, mirando alla pattuglia dei Carabinieri ( disse che temeva che la pattuglia si fosse insospettita e li volesse identificare , ndr). Io credo invece fosse una spedizione mirata e ben orchestrata".