
L’opera ’Un ballo in maschera’ di Giuseppe Verdi andata in scena domenica al Comunale Nouveau (repliche fino a sabato 19)...
L’opera ’Un ballo in maschera’ di Giuseppe Verdi andata in scena domenica al Comunale Nouveau (repliche fino a sabato 19) si segnala per un allestimento coerente dal principio alla fine, nella sua ambientazione fra la ’dark comedy’ e il ’gender fluid’, con pennellate di grottesco felliniano. Nello spettacolo di Daniele Menghini, con scene di Davide Signorini, costumi di Nika Campisi e luci di Gianni Bertoli, l’opera musicalmente più luminosa e solare di Verdi si ritrovava in tal modo popolata di teschi e scheletri, ma pure di palloncini e coriandoli colorati, con ballettini improvvisati ogni volta che dall’orchestra spuntava un ritmo frizzante.
In una reggia dove è carnevale tutto l’anno, ad alimentare le danze è un governatore americano di chissà quale secolo, truccato da re pagliaccio con corona di latta, nel quale il tenore Fabio Sartori si è calato perfettamente, voce e corpo, in una esecuzione impeccabile (non fosse stato per un malaugurato momento di distrazione musicale nel secondo atto). Lo stesso si dica per il suo fido paggetto, affidato alla scintillante Silvia Spessor, divenuto al femminile la segretaria organizzatrice di tante baldorie. Quanto alla maga, modellata dalla lugubre voce del contralto Silvia Beltrami, cessava d’essere l’elemento satanico che inquina la vicenda, divenendone il macabro fulcro scenico. I due perfidi congiurati, ridotti a figuri tragicomici, ne uscivano invece più goffi che grotteschi nell’interpretazione dei bassi Zhibin Zhang e Kwangsik Park, impacciati vocalmente e scenicamente.
Restavano estranei alla mascherata generale i due personaggi sul cui dramma familiare dovrebbe ruotare la vicenda: l’integerrimo consigliere del governatore, per il quale (ci suggerisce il regista) egli nutriva ben più che una sincera amicizia, e sua moglie, che (da copione) ama riamata il governatore stesso. Come catapultati lì dentro da un’altra opera, i rispettivi interpreti hanno dato il meglio di sé: il baritono Amartuvshin Enkhbat confermava la sua ben nota sintonia con i personaggi tragici verdiani, il soprano Maria Teresa Leva faceva valere la sua vena drammatica e il suo bel registro acuto, mentre restava debole nelle frasi gravi della sua parte. A tenere le fila del tutto c’era Riccardo Frizza (una certezza in questo repertorio), che dal podio ha governato con sicurezza orchestra, cantanti e coro, evitandoci quei tempi sfrenati che molti suoi colleghi sono soliti applicare all’esecuzione delle pagine più brillanti di quest’opera, finanche mettendo in difficoltà i cantanti: al contrario, l’attenzione alle esigenze dei cantanti è stata la cifra della intera concertazione, sempre un po’ distaccata da quanto si vedeva in scena.
Marco Beghelli