di Claudio Cumani
Sono scampate all’ingiuria del tempo, alla furia dei conquistatori, alla disattenzione degli studiosi: sono una dozzina le testimonianze preziose dell’arte precolombiana sparse nel mondo. Una di queste è il Codice Cospi, manoscritto divinatorio messicano dipinto fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, rarissimo esempio di un patrimonio librario sfuggito all’oblio e conservato a Bologna dal 1530. Il Codice, probabilmente portato in città da un domenicano missionario come dono a papa Clemente VII, è transitato dalla Collezione Cospi all’istituto dell’Accademia delle Scienze per poi approdare alla Biblioteca Universitaria dove tuttora è ospitato. Ed ora analizzato.
A quindici anni dal primo ciclo di indagini compiute sul manoscritto azteco, parte ora una campagna di analisi scientifiche non invasive mirate a indagare la composizione dei colori che lo compongono attraverso l’uso di una serie di tecnologie innovative. Le analisi, svolte grazie alla fruttuosa sinergia fra vari comparti dell’ateneo, la Fondazione Carisbo (che ha finanziato l’operazione) e il Molab, sono già in elaborazione. "Pensiamo che la pubblicazione dei risultati non potrà avvenire prima di cinque o sei mesi", dice Davide Domenici, docente di antropologia nella nostra università. E anticipa che è già allo studio un evento speciale per "presentare" in modo ufficiale il Codice alla città. Alla Bub infatti può essere visto solo grazie a permessi speciali, anche perché sono a disposizione una serie di facsimili per le necessità di studio.
Professore, partiamo dall’inizio. E cioé dall’incontro del domenicano spagnolo Domingo de Betanzos con papa Clemente VII. Quali doni porta?
"Una decina di oggetti in tutto, da quello che sappiamo: maschere, custodie per coltelli, lanciadardi, libri dipinti. Abbiamo notizie di altri missionari che in quel periodo a Roma offrono regali al Papa per dimostrare l’esito felice dell’evangelizzazione in Messico e per sostenere che gli indigeni sono bravi e convertibili. Negli altri Paesi europei invece tocca ai conquistatori trasportare testimonianze delle terre lontane. Quel patrimonio però si disperde molto rapidamente".
Perché a Bologna è rimasto soltanto, del lotto iniziale, il Codice, oltre alle testine in terracotta ospitate da poco tempo al museo Medievale?
"Nel 1865 viene deciso uno scambio con il museo preistorico Pigorini di Roma. Da lì ci arrivano alcuni vasi villanoviani mentre noi cediamo il patrimonio azteco. Il Codice comincia subito a essere studiato ma è nel 2006 che variamo una campagna di analisi che ci porta anche all’esame di altri libri dipinti in giro per l’Europa".
Come è costruito?
"Si tratta di una striscia di pelle di cervo ripiegata a fisarmonica composta da venti pagine quasi sempre dipinte su entrambi i lati. Manca purtroppo la copertina originale che è stata sostituita da una pergamena recante la scritta Libro del Messico. Pare che nel 1665 ci fosse scritto Libro della Cina".
Gli studi si sono concentrati soprattutto sui colori?
"Le analisi hanno messo in luce come i pittori utilizzassero non soltanto il celebre ‘blu Maya’ ma anche i gialli e arancioni grazie a pigmenti ibridi. In pratica dipingevano con i fiori e quindi avevano a disposizione una miriade di coloranti organici che però svanivano. È stato l’uso dell’argilla a fissare le molecole di quei fiori e a creare una resistenza cromatica che per lungo tempo è sembrata misteriosa".
Come è organizzato il manoscritto?
"È diviso in varie sezioni. La prima è costituita da un calendario in cui i 260 nomi dell’anno sono associati ad altrettante divinità. In un’altra parte sono analizzate conseguenze astronomiche, ovvero sono valutate le influenze dei pianeti sulla vita delle persone, quasi si trattasse di un oroscopo ante-litteram. In particolare a certe posizione di Venere, che era ritenuta gemello del Sole, si attribuiva la responsabilità di carestie, siccità e violenze".