Anna Maria Stefanini raggiunge l’altare con in mano il cappello del figlio Otello. Il passo tremante, la voce che si piega al pianto: questa mamma è l’immagine che, ogni anno da 34 anni, racconta lo strazio della strage del Pilastro. Tre carabinieri giovanissimi, 64 anni in tre, trucidati dalla lucida follia della banda della Uno Bianca in via Casini. Una violenza inaudita, che non trova giustificazione nella semplice ferocia dei fratelli Savi e dei loro complici: vogliono la "verità completa" i famigliari delle vittime. La chiedono da anni e, adesso, l’inchiesta partita dall’esposto firmato da una parte di loro apre una nuova speranza. Ne sono convinti Ludovico Mitilini, Alessandro Stefanini e Alessandra Moneta, fratelli dei carabinieri ammazzati. Lo pensa anche il nuovo presidente dell’associazione dei famigliari, Alberto Capolungo, figlio del carabiniere in pensione Pietro, ucciso nell’armeria di via Volturno il 2 maggio del 1991.
"Chiediamo verità completa, ripartendo da qui, dove i nostri fratelli sono stati uccisi", dice Mitilini davanti al cippo che ricorda i carabinieri, ornato con le corone appena deposte. "Non dovevano essere qui – spiega –: negli atti che abbiamo acquisito c’era scritto che la loro doveva essere una vigilanza fissa. Invece vennero trovati molto distanti dall’obiettivo da controllare, le scuole Romagnoli. Era un periodo caldo, c’era stato un attacco con delle molotov, poco distante c’erano i campi nomadi che erano stati colpiti. È impensabile che i carabinieri si spostassero di loro iniziativa".
Una constatazione che si unisce alle altre domande nell’esposto, presentato dai legali Alessandro Gamberini e Luca Moser, tese anche a chiarire chi pose per primo l’attenzione sui Savi: "C’è una dichiarazione del ministro dell’Interno – prosegue Mitilini – che parla di una fonte diretta, un confidente: chiediamo che venga detto chi era, se aveva contatti con i Savi". Perché per i famigliari quella strage non fu frutto di un incontro casuale: "Fu un agguato: loro avevano armi potentissime, erano travisati, avevano pronta un’Alfa 33 per fuggire con un soggetto a bordo che ancora non è stato identificato, come non è stata ritrovata l’auto. Avevano messo in conto la loro azione, pianificavano sempre. E credo che dietro ci siano mandanti e anche complici: il quarto uomo dell’Alfa 33, in primis; poi c’era anche un’Alfa 75 con una persona a bordo che aveva delle somiglianze con l’uomo identificato all’armeria Volturno. Abbiamo fiducia nella magistratura, auspico che si giunga alla verità e che quanto prima cada il muro di omertà che fino adesso ha coperto certe situazioni". La domanda è se nelle prime indagini qualcosa sia stato tralasciato: "C’è stata confusione, le indagini non hanno funzionato? Non sono io a dirlo, ci sono state varie inchieste, ci sono commissioni. Io voglio partire da adesso". Il clima è di speranza verso novità che potrebbero arrivare: "C’è massimo riserbo da parte degli inquirenti – aggiunge Stefanini –. Sembra che stavolta si sia mosso qualcosa, siamo fiduciosi di avere a breve qualche informazione in più".
Il neo presidente Capolungo è in linea con le parole del cardinale Matteo Zuppi, per cui ci sono dei "punti oscuri" da chiarire: "Abbiamo ricostruito tutti i fatti, ma manca sempre qualcosa: il perché. Quel periodo fu veramente di fuoco: la strage del Pilastro è al centro di 7 mesi terribili, in cui si contarono 15 morti. Ogni fatto è stato ricostruito, ma dov’è il perché? Perché i campi nomadi? Perché i carabinieri? Cosa sono andati a fare il 2 maggio i Savi in via Volturno?". Per Capolungo, "l’effetto di quei mesi resta la cosa più evidente: dopo la strage del 2 agosto Bologna ha reagito da città civile. In quegli anni c’era un clima di terrore, anche tra i bambini: dovevi andare a fare la spesa alla Coop, in Posta, a fare benzina? Avevi paura. Hanno instillato terrore per giorni, anni, creando una paura collettiva: terrorismo puro". Per Capolungo le indagini furono scrupolose: "Oggi però sono cambiate le possibilità tecnologiche – spiega –. Sarò sempre grato al pm Giovannini per il lavoro fatto nel processo di primo grado, però se adesso abbiamo possibilità di capire di più, di approfondire... ben venga".