Bologna, 2 agosto 2021 - Ci sono i "mandanti, organizzatori e finanziatori": da Licio Gelli, l’ex maestro venerabile della P2, al suo braccio destro Umberto Ortolani, passando per l’ex potente prefetto a capo dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato, fino al direttore del Borghese, Mario Tedeschi. C’è poi il "quinto uomo della strage", Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale, che avrebbe agito "in concorso" con gli ex Nar già condannati per la carneficina: Francesca Mambro, Giusva Fioravanti (ergastolo), Luigi Ciavardini (30 anni, tutti e tre definitivi) e Gilberto Cavallini (ergastolo, primo grado).
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Processo epocale. Quarantuno anni dopo non è ancora finita. Manca l’ultimo pezzo di verità sull’orrore del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna quando 23 chili di esplosivo fecero 85 croci e oltre 200 feriti. Il più grave attentato terroristico italiano, secondo in Europa solo alla carneficina del 2004 alla stazione di Atocha, Madrid, 191 vittime. Dopo i Nar, ora tocca agli altri presunti responsabili dell’attentato e dei successivi depistaggi: otto persone (cinque decedute). A partire dall’ex primula nera, Paolo Bellini, il killer di Alceste Campanile, accusato oggi dalla Procura generale di Bologna di avere avuto un ruolo attivo nell’orrore. Alla sbarra, nello ’strano’ processo iniziato il 16 aprile scorso a porte chiuse per ragioni sanitarie e trasmesso in streaming, ci sono anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel (depistaggio) e Domenico Catracchia (falso ai pm), amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, covo prima delle Br e poi dei Nar. Doveva esserci anche l’ex generale del Sisde di Padova, Quintino Spella (depistaggio), ma è deceduto alcuni mesi fa. "Sarà un processo epocale, – commenta Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime – l’ultimo passo per la verità totale che svelerà chi organizzò e finanziò la strage".
Mandanti. I nomi, la Procura generale che nel 2017 avocò a sè un’indagine sull’orlo dell’archiviazione, li ha già messi nero su bianco: a partire da Licio Gelli, accusato di aver distratto milioni di dollari dal crac Ambrosiano e messi nelle mani dei Nar (un milione) per la strage. C’è il suo braccio destro, Umberto Ortolani, ci sono l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati, il ’poliziotto gourmet’ Federico Umberto D’Amato e il direttore del Borghese, Mario Tedeschi. "Ma i correi – dissero all’apertura del dibattimento, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Francesco Maria Caruso, gli avvocati di Bellini, Manfredo Fiormonti e Antonio Capitella – oggi sono tutti morti e dinnanzi alla morte il reato si estingue, l’azione penale diventa nulla. La contestazione in concorso con un imputato vivente, salva il rapporto processuale?". Per questo "il decreto che dispone il giudizio di Bellini è nullo". Richiesta rimandata al mittente perché il processo all’aviere di Reggio Emilia, che per anni da latitante girò indisturbato per il mondo "protetto dai Servizi deviati" e con l’alias del brasiliano Roberto Da Silva, si sta celebrando con le udienze – l’ultima venerdì, si tornerà in aula l’1 settembre – già arrivate a 29. E ogni sua parola, da sempre, genera rabbia, indignazione, polemica. Come quelle sputate fuori all’ingresso in tribunale proprio il 16 aprile: "Come mi sento? Come Sacco e Vanzetti". I due anarchici condannati a morte in America per un omicidio mai commesso e riabilitati solo 50 anni più tardi.
Storia. Fil rouge di sangue. Come quella invocata dall’avvocato generale Alberto Candi e dai sostituti Nicola Proto e Umberto Palma, partiti dalla sentenza del 2017 sulla strage di Brescia (1974) dove "per la prima volta" si parla di un legame con piazza Fontana, con l’orrore alla questura di Milano (1973) e con Bologna. "Per la prima volta una sentenza dice di fare attenzione a questo fil rouge terroristico". E la storia di oltre tre anni di inchiesta parte dal crack Ambrosiano, porta a P2 e ai "capi dell’intelligence vicini a Gelli", alla strategia della tensione, a Terza Posizione, a Stefano delle Chiaie e alla ’sua’ Avanguardia Nazionale. Fino a Bellini il cui volto sarebbe impresso nel video Super 8 girato da un turista subito dopo l’esplosione alla stazione.
Crolla l'alibi? "Sì, è mio marito", è crollata la ex moglie Maurizia Bonini, sentita il 21 luglio durante un’udienza tesissima e sentitissima, con Bellini che ha abbandonato l’aula. Non ha esitato la Bonini: "Si vede la fossetta, lì, tra il labbro e il mento. Ha i capelli tirati indietro, di solito li teneva in avanti, ma la faccia è la sua". La donna, oggi 67enne, è andata oltre: "Nel 1983 gli fornii l’alibi, dissi che alle 9 Paolo e io, con i nostri figli Silvia e Guido e la nipote Daniela, ci eravamo visti a Rimini per andare insieme in vacanza al Tonale. Non è vero: Paolo arrivò molto più tardi, forse a mezzogiorno. Ho detto una bugia, mi avevano detto che volevano incastrarlo e io ero certa della sua innocenza. E invece ha ingannato tutti, me per prima. Ho sbagliato, chiedo scusa a tutti. Avevo 25 anni, era mio marito e io non immaginavo che lui avesse una doppia vita... Se avessi avuto anche solo un dubbio, avrei parlato prima".
Carminati e Hass. Tra i testimoni che ancora devono comparire in aula 11, nel vecchio tribunale di via Farini, spiccano i nomi di Massimo Carminati, condannato nell’appello bis di Mafia Capitale, di Gherardo Colombo, il magistrato che scoprì le liste della P2 con il collega Turone. Già sentita invece l’ex brigatista Adriana Faranda. Nelle liste testi era citato anche il nome di Karl Hass (deceduto), l’ex ufficiale delle SS condannato per la strage delle Fosse ardeatine.
Le difficoltà. Un processo non facile da celebrare innanzitutto per il tempo passato, per i numerosi morti, a partire da cinque degli otto presunti responsabili, fino ai testimoni. Molti dei quali molto anziani, ’irreperibili’ (come quel Marco Ceruti, factotum di Gelli, a spasso tra il Brasile e Miami e sul quale è stata avviata una richiesta di rogatoria) o che fin qui hanno inviato certificati medici ("con scuse ridicole", per i magistrati) per non presentarsi. E con il tribunale costretto a traslocare a Roma in due occasioni per poterli sentire. Entro gennaio la Corte vuole chiudere e mettere un altro pezzo di verità nero su bianco. Forse quello decisivo. Quarantuno anni dopo Bologna e l’Italia intera lo pretendono.