Bologna, 22 marzo 2019 - C’è un nuovo nome sul tavolo della procura generale che indaga sui mandanti della strage di Bologna. Un nome sul quale i magistrati – il pg Ignazio De Francisci, il sostituto Nicola Proto e l’avvocato generale Alberto Candi – ritengono ci siano elementi per riaprire una vecchia inchiesta a suo carico, dalla quale uscì prosciolto nel 1992. Quel nome è quello dell’ex primula nera Paolo Bellini, il 65enne di origini reggiane, ex militante di Avanguardia nazionale che si accusò dell’omicidio di Alceste Campanile, giovane attivista di Lotta continua. Bellini, che per anni visse sotto il falso nome di Roberto Da Silva, fu indiziato per la strage di Bologna e il suo nome era emerso, nelle domande poste ai testi dagli avvocati di parte civile, anche nel corso di alcune udienze del processo per concorso in strage in corso in Corte d’Assise all’ex Nar Gilberto Cavallini.
Due giorni fa, però, la svolta: il gip Francesca Zavaglia ha fissato per il 28 maggio la camera di consiglio per discutere la richiesta, avanzata dalla procura generale, di revoca della sentenza di proscioglimento di Paolo Bellini, emessa il 28 aprile ’92. Parti offese individuate dal gip: tutte le vittime della strage del 2 agosto e l’Associazione dei familiari. Dopo la perquisizione a casa di Flavia Sbrojavacca, ex compagna di Cavallini e l’iscrizione nel registro degli indagati per depistaggio dell’ex responsabile del Sisde di Padova, il generale Quintino Spella, emerge adesso un altro tassello delle indagini sui mandanti avocate dalla procura generale, che continua a muoversi nel massimo riserbo. Nonostante l’iscrizione di Spella, resa nota all’ultima udienza del processo a Cavallini dallo stesso legale del generale, la richiesta della procura generale nei confronti di Bellini risulterebbe ancora legata a un procedimento contro ignoti. Non è chiaro quali fossero nel dettaglio le accuse connesse alla strage per cui fosse indiziato fino al ’92 Bellini, che non è mai stato imputato per la strage della stazione che fece 85 vittime. Ma poche accuse, trascorsi oltre 38 anni, avrebbero potuto ‘salvarsi’ fino a oggi dalla prescrizione, se non quelle con le pene più severe.