NICOLETTA TEMPERA
Cronaca

Bologna, prese l’epatite da sangue infetto. Maxi rimborso

La donna ha contratto l’epatite C nel 1974 dopo una serie di trasfusioni al Sant’Orsola

Una trasfusione

Bologna, 28 gennaio 2017 - Un risarcimento 360mila euro, a fronte di una vita passata a combattere contro l’epatite C. A tanto ammonta la somma stabilita dal giudice Daniele Martino della terza sezione civile del tribunale che, martedì, ha condannato in primo grado il ministero della Salute, la Gestione liquidatoria dell’ex Usl di Bologna e la Regione Emilia-Romagna a ripagare (in via solidale o concorrente), per il danno subìto, una donna di 66 anni lucana, ritenendo che avesse contratto il virus Hcv a seguito di trasfusioni di sangue infetto.

Rappresentata dallo studio legale Frisani di Firenze, con gli avvocati Pietro Frisani ed Emanuela Rosanò, la donna nel luglio del 2010, dopo essersi sottoposta a degli esami del sangue, ha scoperto di essere affetta da epatite C. Una malattia che avrebbe contratto però molti anni prima: ossia nel 1974 quando, per alcuni mesi – da febbraio a luglio –, si era sottoposta complessivamente a 69 trasfusioni all’allora ospedale Sant’Orsola, dove era stata ricoverata. Negli anni intercorsi tra quei ricoveri e la scoperta della malattia, la donna ha subìto anche a due esami endoscopici che avrebbero potuto trasmetterle il virus. Tuttavia il giudice, che si è avvalso della consulenza di un medico legale, in base al principio della “probabilità prevalente”, ha ritenuto meno attendibile questa seconda ipotesi.

Infatti, scrive nella sentenza, nel 1974 “il rischio di contrarre l’Hcv era dovuto al fatto che il sangue trasfuso non era sottoposto a rigorosi controlli”, anche in virtù del fatto che “il virus dell’epatite C non era ancora conosciuto”, mentre il rischio legato a un’endoscopia “appare una possibilità più ipotetica senza evidenze fattuali più precise”

La donna, a causa dell’epatite, è adesso affetta da cirrosi, con un’invalidità al 50 per cento e, “dalla scoperta della malattia – come spiegano i suoi legali – ha dovuto affrontare difficili cambiamenti, nelle abitudini alimentari, nella vita privata, fortemente condizionata da questa negligenza medica”. La sessantaseienne dal 2010 percepisce un’indennità statale, che è stata scalata dal risarcimento stabilito dal giudice. Che, nel dispositivo ha disposto anche che le società assicuratrici degli enti condannati rispondano per i massimali previsti dalle polizze. “Ci auguriamo – hanno concluso gli avvocati – che queste pronunce sensibilizzino le persone contagiate o i loro eredi ad agire per l’integrale risarcimento del danno visto che lo Stato, con la legge 210/1992, ha creato un simulacro di risarcimento riconoscendo una indennità di importi spesso risibili alle vittime, ingenerando così in loro il convincimento di aver ottenuto l’integrale ristoro dei danni subiti, quando invece gli importi dovuti sono molto più alti”.