di Benedetta Cucci
La sua passerella è attualmente una delle più politicizzate. Ma in una maniera gioiosa eppure estremamente libera e forte nelle intenzioni, concetto attualmente molto diffuso nella sua generazione che sta strappando le fasciature di un’ingessatura ormai difficile da sopportare, in vari ambiti dell’arte e del sociale. Marco Rambaldi, 31 anni, nato a Castenaso ma con atelier a Milano (è il 247, un multi-label showroom), è tra i fashion designer più promettenti del momento con un suo brand dal 2017. Oggi dalle 15 alle 18 sarà all’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti, ospite del seminario ’Moda e politica’ a cura di Elisabetta Zanelli, che si inserisce all’interno di un progetto più ampio dal titolo ’Moda e Politica, moda sostenibile e moda solidale’.
Rambaldi, la moda è la sua professione e la politica un linguaggio e un’attitudine. Cosa racconterà oggi di sé in Accademia?
"Sarà un talk, una chiacchierata informale perché è sempre importante avere un dialogo. La moda è il mezzo col quale lavoriamo ed esprimiamo i nostri messaggi e ha a che fare con la politica perché utilizza un linguaggio visivo molto diretto, ben più diretto della politica stessa, e si fa portavoce di istanze sociali e contemporanee cercando di ipotizzare un futuro migliore".
Già nelle sue sfilate questo intento è ben dichiarato, visto che sceglie di mettere in discussione un concetto di ’genere’ che a lei sta stretto. Non ci sono più modelle che seguono canoni di bellezza tradizionale, non ci sono taglie 38 a tutti i costi, mentre femminile e maschile lasciano spazio alla fluidità molto amata dalla sua generazione.
"Sono diverse stagioni che il nostro casting, curato dal mio socio e partner Filippo Giuliani che è art director, è composto da tutte queste personalità che amiamo chiamare ’creature del nostro universo’, senza specificare un’identità di genere o un orientamento sessuale. Il dettaglio imprescindibile è che abbiano una storia da raccontare, il fattore umano portato con fierezza è fondamentale e davvero raro per questo mondo che non è ancora pronto per la verità. Molte ’creature’ sono parte delle nostre amicizie e di sfilata in sfilata ritornano, mixate con altre dei casting di agenzia. So di essere scomodo perché racconto qualcosa che già c’è ma che in molti non vogliono vedere: la diversità fa ancora paura, come il razzismo e l‘omofobia".
Tra le sue passioni c’è l’uso dell’uncinetto per creare capi. Da dove arriva questa predilezione?
"Dalla mia bisnonna da cui ho ereditato molti uncinetti e centrini. Quindi fin dalla prima collezione ho pensato a come avrei potuto riutilizzarli e da allora è diventato per noi un simbolo, che ha cambiato anche il senso di come va vista questa arte, come un nuovo messaggio di femminismo".
Gli anni settanta restano la sua ispirazione?
"Sì e non solo per le forme e le silhouette, perché quello che mi interessa è che sia stata la decade dei grandi cambiamenti. Da questo, dai pantaloni scampanati alla camicia fit, abbiamo iniziato tutto lo studio delle forme che poi si è evoluto di stagione in stagione, portando fuori anche la maglieria smacchinata industrialmente, con gli smanicati di lana che sono diventati iconici, partendo dai cuori arcobaleno che strizzano l’occhio al mondo lgbt".