Bologna, 4 febbraio 2024 – Ieri mattina una telefonata l’ha raggiunto a Roma, dove si godeva i due giorni di riposo fuori dal set del suo ultimo film. E da quando l’ha saputo, i pensieri hanno iniziato a rincorrersi nel suo cuore, prima ancora che nella testa, perché il cinema Bellinzona di Bologna, nello storico quartiere Saragozza, per Pupi Avati è casa. E il fatto che questa sala di comunità adiacente alla parrocchia di San Giuseppe rischi di chiudere, dopo l’annuncio da parte dei Frati Cappuccini della futura nascita di uno studentato dell’Alma Mater nel convento, ha spinto il grande regista a voler parlare alla città attraverso il nostro giornale. Un appello accorato a "non compiere un’azione anacronistica e irragionevole". Per di più la sala, che ha una programmazione di grande qualità, è un successo di affluenza, 30.000 persone in un anno.
Maestro Avati, è stata una spada nel cuore questa notizia?
"Ieri e oggi per me è festa, perché sono i due giorni della settimana in cui non giro e mi riservo di fare le cose che mi piacciono, mettere a posto i libri, ascoltare la mia musica, e invece ricevo questa notizia che ha funestato il mio sabato. Che sconforto. ‘Chiude il Bellinzona’ mi dice la persona, ho pensato a uno scherzo".
Perché? Non sarebbe una notizia così strana coi tempi che corrono.
"Perché questo è un momento in cui il cinema finalmente, dopo anni bui in cui la sala cinematografica in generale era disertata, attraverso la proposta di un cinema di qualità, sta vivendo una grande rinascita. Capisco quattro anni fa, in grande crisi si poteva pensare al da farsi, ma non oggi. Non so se ha notato, ma c’è stata un’inversione. Nelle sale italiane che hanno saputo resistere – Bologna in questo è un caso eclatante, con la recente riapertura del Modernissimo – si è creato un pubblico fidelizzato".
Per lei il Bellinzona è anche casa, è la sua storia, l’inizio della grande avventura esistenziale.
"Quando ero ragazzino il Bellinzona è stato uno degli esempi più alti, più nobili, più interessanti di quella che è la promozione del cinema di qualità. A quei tempi si chiamava cinema San Giuseppe ed era un cinema d’essai, dove si proiettavano i capolavori. Lì ho visto per la prima volta i film di Bergman, di Pabst, di Dreyer, di Fellini. Il primo cinema che avesse un senso e un significato, i grandi classici con ‘segue dibattito’, la frase classica, presentati con le schede fatte da frati Cappuccini illuminati che sapevano veramente quanto il cinema contasse nella storia della cultura del Novecento allora. E’ tra i cinema di comunità, uno di quelli che ha incassato sempre di più".
E poi lei si è anche sposato nella parrocchia di San Giuseppe.
"Sì, in quella chiesa ho fatto lo scout, ahimè ci sono stati i funerali di mio padre, di mia nonna, di mia madre, in quella chiesa si è sposato mio fratello, in quella chiesa mi sono sposato io, mia sorella. È una chiesa cui siamo fortemente legati, anche grazie al cinema dove da ragazzino ho visto Lucio Dalla bambino che si esibiva nelle prime riviste, ed era veramente una star delle riviste parrocchiali dell’Emilia Romagna. Ma poi, non sono legato solo io al cinema, so che c’è un’attenzione, c’è un consenso verso la sala... per cui pensare che sia addirittura un’operazione in cui c’entra l’Università di Bologna, quindi la cultura che interviene certamente non con l’intenzione di far chiudere il cinema, ma producendo questo risultato che possa chiudere un cinema, in questo momento di rinascita, è una cosa anacronistica, impopolare, irragionevole".
Invece le sale di questo tipo, con l’atmosfera autentica, piacciono moltissimo.
"L’ho sperimentato quest’estate portando in giro il mio film per le arene. Ho incontrato un’Italia che pensavo non esistesse più e invece che sorpresa, questa Italia attentissima e colta che ti segue".