di Beatrice Buscaroli
Forse le genealogie hanno davvero un senso. Sono nati nello stesso anno, il 1922, hanno compiuto gli stessi studi, architettura a Firenze, sono approdati alle stesse passioni, la pittura, nella stessa Accademia di Bologna. Eppure le ricerche e la vita hanno separato in modo deciso i percorsi di Bruno Pulga e di Vasco Bendini. E questo nonostante l’amore e la passione per gli stessi maestri, Giorgio Morandi e, soprattutto, Virgilio Guidi. Non solo: per entrambi non sembra valere un facile accostamento della loro ricerca né al clima informel, né alla più inclusiva – e storicamente ricercata – poetica degli ’ultimi naturalisti’ delineata con passione da Francesco Arcangeli. Nella grande stagione che si inaugura a Bologna negli anni Cinquanta, quella di Pompilio Mandelli, Cesare Romiti, Mario Nanni, Pirro Cuniberti, Sergio Vacchi, Pulga e Bendini sono due astri rari, imperscrutabili. E Pulga è stato con ogni probabilità – in quegli anni e nel concentrato volgere della sua vita – l’artista più internazionale della sua generazione.
Un artista che si trasferisce a Parigi nel 1961, dopo alcuni viaggi e soggiorni all’estero, in Germania, in Inghilterra, che, pur non essendo più la ville lumière del primo novecento, restava il centro del sistema dell’arte contemporanea, per rimanervi fino alla morte, nel 1992. Ora, nel centenario della nascita, Bruno Pulga ritorna a Bologna con il lascito eccezionale (25 olii, acquerelli, e una ventina di litografie e disegni) che il nipote Giulio ha donato alle collezioni di Genus Bononiae, esposte fino al 19 marzo all’Oratorio di Santa Maria della Vita. Figure, volti, paesaggi pronti a raccontare una vicenda unica nel clima novecentesco (Bruno Pulga Ventidue).
Dopo i primi dipinti caratterizzati da impianti cézanniani e post-cubisti che si sfaldano nelle serie dei Paesaggi e delle Teste (esattamente come accade nei primi cicli di Bendini), in Francia la declinazione nei confronti della natura e del paesaggio acquisisce declinazioni originali nelle intense interrogazioni delle Falaises e delle Plaines, delle scogliere e delle pianure, dove l’immagine naturale si riduce al proprio fantasma, al segno intimo delle sue forme e delle sue luci. Le prime, monocromi solcati da grumi di materia che accendono la superficie e fanno riverberare risonanze inattese sono pure emozioni pittoriche. Le seconde, più vicine alle posizioni care ad Arcangeli, dove la composizione spaziale pare ripensare al gesto di autori cari all’autore, come Rembrandt e Monet.
"Negli anni dell’apprendistato – scrisse nel 1959 Luigi Carluccio – quella intelaiatura postcubista; quell’abbandono romantico ad un sentimento solenne e remoto della natura - Pulga ha scoperto la linea dominante del suo tendere all’espressione; ha
scoperto le sue attitudini e suoi vizi ed ha scoperto che attitudini e vizi formano in lui un equilibrio di toni caldi e di freddi, di materie lisce e di materie grommose, di relazioni trancianti tra vicino e lontano, tra luci e controluci".
Parigi lo ha accolto. Lì è diventato amico di Zoran Music, Hans Hartung, Anna-Eva Bergman. A Parigi, dove a Pulga è stato riconosciuto il valore alto e ancora attuale della sua pittura capace di rinunciare alle convenzioni e alle convenienze, ai programmi e alle formule, rievoca i ritmi e il senso di quel lontano informale italiano, evocato e ripercorso, ma mai dimenticato.