di Nicoletta Tempera
Ivan Rudic era mosso da un "irrazionale sentimento di rancore" verso Consolato Ingenuo. Un sentimento "mai sopito" e montato nel corso di quella serata alcolica, sfociata in una "vera e propria esplosione di rabbia". In 57 pagine, il giudice Massimiliano Cenni ricostruisce tutte le fasi del brutale omicidio che, la notte tra il 29 e il 30 luglio del 2019, hanno portato alla morte del quarantaduenne calabrese, avvenuta a Cereglio di Vergato. Per quel delitto, il 7 settembre, il trentaseienne serbo Rudic, difeso dall’avvocato Gabriella Moccia, è stato condannato all’ergastolo, mentre Mihai Nutu Apopei, romeno di 52 anni, amico di lunga data della vittima, che ha aiutato l’assassino a occultare il cadavere, a due anni.
A incastrare Rudic, "una serie veramente ricca di disattenzioni" in cui lui e Apopei (difeso dall’avvocato Stefano Ossorio) quella notte incorsero. Disattenzioni dovute a "un’ininterrotta assunzione di alcolici da parte degli imputati e della vittima". Che quella sera, già dalle 18, avevano iniziato a bere insieme. Il primo elemento che il giudice della Corte d’Assise evidenzia sono le false dichiarazioni che l’imputato rende prima ancora del ritrovamento del cadavere di Ingenuo ai carabinieri, che lo avevano convocato per il danneggiamento di alcune fioriere di fronte al bar Olga di Tolè. In quella circostanza Rudic dichiarò di aver investito un capriolo nei pressi dello stabilimento dell’Acqua Cerelia. Per il giudice, "la circostanza che egli abbia ideato una simile fuorviante versione dei fatti aveva lo scopo di spiegare la presenza dell’imbrattamento di sangue sulla vettura, in una fase in cui non era stata ancora accertata la morte di Ingenuo (...). Probabilmente con l’ideazione dello scontro con il capriolo in un luogo posto più a nord l’imputato intendeva anche impedire che l’automobile potesse essere collegata in un determinato orario in un luogo più prossimo al luogo in cui il cadavere era stato gettato. Orbene – conclude Cenni – la falsità delle dichiarazioni rese costituisce un indizio di estrema rilevanza a carico di Rudic".
Il serbo, tra l’altro, nega di essere stato, quella notte, a casa di Apopei. Fuori dalla quale, tra l’1,30 e l’1,45, si sarebbe consumato il delitto, con Ingenuo preso a pugni e calci in testa da Rudic fino alla morte. Ma c’è una videochiamata, tra la vittima e sua cugina, che lo smentisce. Una videochiamata che aveva "ulteriormente indispettito Rudic", dettaglia il giudice, perché la ragazza "aveva respinto le sue avances, asserendo che per parlare con lei doveva chiedere il permesso a Consolato, in tal modo attribuendo imperdonabile importanza a quest’ultimo". Quest’ultima telefonata, dopo una serata alcolica già contraddistinta da screzi, potrebbe essere stata l’ultima goccia che ha fatto scattare la furia omicida. "L’alibi falso, il mancato ritrovamento della maglietta (sporca di sangue, che Rudic indossava la notte dell’omicidio, ndr), le plurime tracce del delitto riscontrate, il risentimento verso la vittima e, infine, l’indole violenta dell’imputato" sono i motivi che hanno portato alla condanna di Rudic. E Apopei? Lui, per la Corte d’Assise "non aveva alcun motivo di ostilità" verso Consolato, a cui era legato "da un rapporto di profonda amicizia". A spingerlo a collaborare con l’assassino, nelle fasi dell’occultamento del cadavere, buttato in una scarpata a Cereglio, il timore nei confronti del complice, "caratterialemente più forte e spregiudicato di lui".