Come si fa in un mondo dilaniato dalle guerre, attraversato dal malessere sociale, devastato dai disastri ambientali a coltivare la speranza? E si può, come diceva Ernst Bloch, imparare a sperare? E ancora: aveva ragione Theodor Adorno quando sosteneva che senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile? È su una materia così complessa e così indissolubilmente legata al senso della nostra esistenza che il teologo Vito Mancuso ha costruito il suo ultimo libro intitolato appunto ‘Destinazione speranza’ (Garzanti). L’autore ne parlerà, nell’ambito del ciclo ‘La voce dei libri, giovedì 17 alle 18,30 all’auditorium del Mast. Perché, citando Norberto Bobbio, la vera differenza non è fra chi crede e chi non crede ma fra chi pensa e chi non pensa.
Professor Mancuso, perché non sappiamo più sperare?
"Esiste una duplice dimensione della questione. C’è una piccola speranza, ovvero quella legata ai fatti quotidiani che, quando viene a cadere, ci getta nella depressione. E c’è una grande speranza, la cui assenza ci sprofonda nella disperazione. Succede quando la cultura dominante rigetta appunto la dimensione della speranza, ovvero la lettura della storia come provvidenza e della natura come creazione. È la malattia che incombe sull’Occidente sazio, disperato e incapace di nutrire grandi ideali. Insomma, non abbiamo più la chiave di lettura giusta".
Per un credente è tutto più semplice?
"Per un cristiano fede, speranza e carità sono valori costitutivi ma non tutto è facile. A volte le crisi sono più acute di quelle delle coscienza laiche".
Come possiamo allora tornare a sperare?
"Bisogna partire da tre domande fondamentali di Kant: cosa posso sapere? Cosa devo fare? Cosa mi è lecito sperare? La speranza non è una debolezza dell’intelletto motivata dalla paura della morte e della desolazione del presente. I pensatori del passato ci hanno detto che nella vita c’è qualcosa di più importante e che siamo qui per sintonizzarci con gli altri e connetterci con una dimensione più grande. Libertà di obbedire significa per me libertà di ascoltare".
Per i cristiani l’uomo è perfetto ma secondo Kant in lui si annida il male. Si possono conciliare queste posizioni?
"Il cristianesimo rivendica la perfezione originaria dell’uomo, ma al tempo stesso ritiene che debba essere redento a causa del peccato originale. Kant, peraltro messo all’indice dalla Chiesa cattolica, ne ha una visione antinomica: lo pensa predisposto al bene ma con una tendenza al male. Ha fiducia nella natura umana ma crede che tutto dipenda non dalla grazia ma da un’educazione costruita sulle regole".
Lei sottolinea la necessità di responsabilità, solidarietà e dimensione morale. In una società come la nostra non le sembrano concetti spesso svuotati?
"La mente è come il corpo, ha bisogno di un’alimentazione corretta. Si produce speranza, evitando il cibo avariato e i programmi trash e ritrovando le buone letture e il silenzio. La vita non è una trappola e può dare buoni frutti se si sa costruire un tessuto sociale con altri esseri umani, partendo da un lavoro interiore".
La politica ci può aiutare in questo senso?
"La politica, se è grande, genera una grande forma di speranza. Penso a personaggi come Mandela e Gandhi ma anche Moro e Berlinguer: la gente li guardava e coglieva un senso di orientamento e un’indicazione verso prassi oneste. Sui politici attuali sospendo il giudizio".