Bologna, 15 gennaio 2025 – “Quando nel pomeriggio del 2 maggio arrivammo all’autodromo c’era un’atmosfera spettrale. Solo silenzio, in un luogo di solito riempito dal rumore, con la lanuggine dei pioppi che copriva i fiori e le maglie appoggiati dai tifosi alla curva del Tamburello”. Stefano Stefanini, sostituto commissario coordinatore della polizia stradale di Bologna, a dicembre scorso, dopo 42 anni di servizio, è andato in pensione. Esattamente trent’anni fa, all’autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, il tragico weekend che ha sconvolto il mondo si è intrecciato a filo doppio con la sua vita professionale.
Stefanini, lei nel ’94, da responsabile della sezione infortunistica, ha condotto le indagini sulla morte dei piloti di Formula Uno Roland Ratzenberger e Ayrton Senna. Cosa ricorda di quei giorni?
“Sono stati giorni, anzi mesi, che hanno segnato la mia vita. Se l’incidente dove rimase ucciso Ratzenberger, il 30 aprile del ’94, fu subito ricostruito in maniera lineare, quello di Senna ci impegnò al massimo. Per quattro mesi, notte e giorno, me ne occupai, spalla a spalla con il pm Maurizio Passarini, sotto una pressione fortissima. Mediatica, ma non solo”.
Ci furono pressioni politiche?
“Senna era un personaggio amatissimo. Era la Formula Uno. Ricordo che dal Brasile arrivarono richieste al presidente della Repubblica perché non si facesse l’autopsia, per rispetto della salma. Impossibile: non si poteva prescindere dal sapere la causa della morte del pilota”.
Con la scuderia invece?
“In Inghilterra non esiste il reato di omicidio colposo. La Williams non capiva perché indagassimo. E anche quando richiedemmo il disegno del piantone dello sterzo (la cui rottura causò l’incidente, ndr) la casa automobilistica non lo inviò finché non ebbe la possibilità di partecipare alle perizie con i propri consulenti”.
L’ipotesi è che sia stato realizzato all’ultimo.
“Senna voleva vincere. Voleva un’auto performante e il nuovo modello della Williams, perfettamente aerodinamico, non lo trovava adeguato al suo stile di guida. Per questo si pensa che quel piantone sia stato modificato all’ultimo, proprio a Imola, appena prima del Gran premio”.
Dopo cinque processi e la prescrizione, cosa resta di quella vicenda?
“Io spero che con il nostro lavoro d’indagine, in qualche modo abbiamo contribuito ad aumentare la sicurezza delle gare automobilistiche. Restano poi le centinaia di persone sentite, le perizie sulla macchina, sul casco e sulla pista. Un lavoro lungo e capillare”.
Il casco e la macchina. Lei ne è stato custode.
“Li hanno affidati a me, in custodia giudiziale. C’è stata un’aspra diatriba tra la famiglia del pilota, la casa automobilistica e i produttori del casco che se ne contendevano la proprietà. Alla fine, su accordo di tutti, sono stati entrambi inceneriti. Di quell’incidente non resta nulla. Si è voluto cancellare ogni ricordo materiale”.
Il casco era identico a quello del pilota della Minardi Pierluigi Martini.
“E lui infatti ci chiamava. Voleva sapere se era il casco ad aver avuto problemi. Era preoccupato. In realtà fu una tragica fatalità: l’uniball della sospensione, nell’incidente si allungò come una lama e si infilò nella visiera, colpendo Senna alla regione temporale destra. Se questo non fosse accaduto, forse il pilota sarebbe ancora qui”.
In tanti anni in polizia stradale non c’è stato solo Senna.
“In quella vicenda fui in prima linea. Ma 42 anni in polizia stradale sono tanti e diventi un po’ un punto di riferimento. Mi sono occupato un po’ di tutto: dalla visita del Papa ai G7, fino al Tour de France la scorsa estate”.
Com’è stato andare via?
“Un po’ dura: la polizia, in cui sono entrato quasi per caso, è stata la mia seconda famiglia. Certo, è cambiato molto. E a 60 anni magari è anche più difficile adeguarsi al nuovo corso. Arriva il momento di cedere il posto alle nuove leve”.