
Manes Bernardini, già due volte candidato sindaco
Bologna, 3 marzo 2021 - La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Manes Bernardini, ex consigliere regionale della Lega (poi fuoriuscito e oggi presidente di Insieme Bologna), annullando senza rinvio per "insussistenza del fatto" la sentenza di condanna a 2 anni e 4 mesi per le spese messe a rimborso dal gruppo in assemblea, tra il 2010 e il 2011. Bernardini finì coinvolto nell’inchiesta che svolsero Procura e Guardia di Finanza mettendo nel mirino tutti i gruppi consiliari, scandagliando i rimborsi chiesti e ottenuti dai politici in Regione. In primo grado Bernardini venne condannato a 2 anni e 6 mesi, poi la pena venne ridotta dalla Corte di Appello. Ieri invece il successo in Cassazione che pesa molto, e a spiegarne in contorni è il professor Vittorio Manes, legale difensore di Bernardini.
Professore, quali sono le ragioni di questa decisione? "La Cassazione ha riconosciuto in radice l’insussistenza dei fatti addebitati a titolo di peculato, oltre ad aver dichiarato estinta un’ipotesi per intervenuta prescrizione. La vicenda processuale dunque si chiude definitivamente, e nel migliore dei modi, perché la formula di proscioglimento per la quasi totalità degli addebiti, ritenuti oggettivamente insussistenti, è perentoria nel riconoscere che nei rimborsi richiesti e ottenuti non sono emersi profili di irregolarità di rilievo penale". Un bel successo per l’impianto difensivo. Quali erano quelle spese che venivano addebitate come non opportune? "Si trattava di una decina di rimborsi per lo più per pranzi o cene, tutte di entità esigua, alcuni rimborsi chilometrici, 3 cd musicali: il tutto per somme complessivamente di circa 800 euro, oltre ad un contratto di consulenza di 1.500 euro e una banca dati giuridica, sulla quale la stessa Corte dei conti si era già espressa ritenendo tale spesa non solo del tutto regolare ma persino opportuna per un consigliere regionale. Insomma, a Bernardini non è stata mai contestata alcuna spesa ‘abnorme’, connotata da esclusive finalità ‘private’, o macroscopicamente non inerente alle attività istituzionali". Oggi ritiene che gli amministratori pubblici siano molto più attenti nella rendicontazione delle proprie spese? "L’impressione è che vi sia un comprensibile e diffuso timore, talvolta parossistico, nella gestione di qualsiasi finanziamento pubblico, e questo contegno spesso sfocia nell’immobilismo pur di evitare il rischio di incorrere, anche per cifre risibili - in contestazioni penali o anche solo erariali. E’ ’l’amministrazione difensiva’, come è stata definita. Temo che atteggiamenti troppo formalistici possano produrre paralisi, e siano quindi controproducenti". A mente fredda pensa che quell’inchiesta fosse stata spinta, per così dire, dal clamore mediatico dell’epoca? "Si partì con una contestazione a tappeto di tutte le spese portate a rimborso, pretendendo che il singolo consigliere desse la prova positiva dell’inerenza istituzionale sotto minaccia penale. In sostanza, oltre ad utilizzare il diritto penale come ’apripista’ e non come extrema ratio , si rovesciava così la presunzione di innocenza. Certamente, inoltre, quell’inchiesta fu accompagnata da un eccessivo clamore mediatico. E come sempre accade, nel circo mediatico-giudiziario si confonde tutto, perché il processo mediatico è uno specchio che non riflette la realtà, ma la deforma: si appiattiscono tutte le responsabilità e i protagonisti in un unico giudizio di disvalore morale, etico, e si perde ogni confine tra comportamento moralmente opinabile, politicamente inopportuno, magari rilevante dal punto di vista della responsabilità erariale, e condotta penalmente rilevante. Ma questa differenza è decisiva, e cruciale, perché il codice penale non va mai confuso con il codice morale".