BEATRICE BUSCAROLI
Cronaca

Ligabue, l’artista che volle farsi animale

A Palazzo Albergati la ’Grande mostra’ che con oltre cento opere sintetizza la straordinaria parabola di un uomo e di un grande talento

Ligabue, l’artista che volle farsi animale

A Palazzo Albergati la ’Grande mostra’ che con oltre cento opere sintetizza la straordinaria parabola di un uomo e di un grande talento

Chissà che cosa avrebbe pensato Antonio Ligabue del successo – che non accenna a declinare – tributato oggi alle sue opere. E quel successo a che cosa è dovuto? "Se dovessi narrare in una riga / la storia di Ligabue / direi era meraviglioso come noi", così chiude la commovente presentazione poetica che Cesare Zavattini gli dedica a due anni dalla scomparsa nel 1965. Uno di noi, forse, uno strano e minaccioso esploratore delle emozioni più dirette, catapultato dalla natia Zurigo nella "selva del Po", come la definisce Vittorio Sgarbi, a Gualtieri (luogo di provenienza del padre, da Ligabue ritenuto responsabile della morte della madre e dei fratelli), diciassettenne, senza conoscere una parola d’italiano. Entra ed esce da ospizi e cliniche, vive allo stato brado, cerca un modo per identificarsi con quella natura anfibia e sconosciuta, o "per nascondersi", come suggerisce il film di Giorgio Diritti, del 2020, con l’artista interpretato magistralmente da Elio Germano: “divenire-animale”: "ululava / se dipingeva lupi / ruggiva se dipingeva leoni", "si arrotava il naso contro il muro / per averlo adunco / voleva essere aquila" ci dice ancora Zavattini.

Nel 1928 un giovanissimo Marino Mazzacurati, pittore e scultore vicino alla ’Scuola romana’, lo trova intento a modellare forma plastiche con la malta del Po, dopo aver lungamente (e letteralmente) ’masticato’ quella terra. Forme di animali, reali o fantastici, impressionano Mazzacurati che cerca di indirizzare questo animismo verso la pittura. Dal semplice impianto compositivo delle prime opere, lentamente comincia a emergere un uso pastoso, espressivo del colore, forse dovuto a un arricchimento ’colto’ del suo patrimonio iconografico: non solo cartoline e pubblicità cinematografiche, ma anche pubblicazioni sull’opera dei Fauves, degli espressionisti tedeschi, di Van Gogh, di Klimt.

La grande mostra aperta a Palazzo Albergati (a cura di F. Negri e F. Villanti, fino al 30 marzo 2025), ricca di oltre cento opere, tra cui numerosi inediti e un prezioso album di disegni mai esposto finora, segue la divisione in tre fasi della sua produzione, proposta più di mezzo secolo fa dal critico e studioso dell’artista Sergio Negri (padre di Francesco Negri, curatore della mostra attuale). Primo, secondo e terzo periodo tracciano le tappe principali della vita dell’artista nato in Svizzera nel 1889 e morto a Guastalla nel 1965.

Dapprima le ’fiere’, inesauribile ‘reportage’ sugli animali feroci, leoni, tigri, leopardi, colti in sanguinosi combattimenti e in pose contorte e violente, poi i paesaggi e i circhi, lavori ancora dominati da immagini di animali, spesso sofferenti e vittime della crudeltà umana. Prima di dedicarsi alla ricchissima produzione di autoritratti (più di 123 in quarant’anni) Ligabue si identifica con queste fiere in pericolo, tanto efficaci quanto sopravvissute a un mondo insolitamente ostile, poi lo stesso sguardo, impaurito ma indomito, passa dalle fiere ai suoi occhi, negli autoritratti appunto, tutti frontali e a mezzo busto. Molto efficace la sala che ne raccoglie sette, ponendoli uno di fronte all’ altro, uno di fianco all’ altro, in una moltiplicazione assurda di sguardi che s’incrociano, ammiccano, dialogano.

L’ultimo periodo, coincidente con gli ultimi dieci anni di vita, è il più prolifico. Tornano gli stessi temi, descritti con raffinatezza e precisione, uso di colori inediti, sfondi padani. Arrivano le mostre, un nome che non è più quello del ’matt’, gli scritti, i mercanti, i committenti. Non è più soltanto l’isolato, il ricoverato, l’inquieto, l’affamato, ma un artista. È attribuita a Marcel Duchamp una battuta in apparenza non benevola nei confronti di quell’arte naif alla quale è pressoché sempre associata la figura di Ligabue: "l’arte naif non esiste, ma c’è chi la compra". Ossia: l’arte, quella autentica, capace di durare, non è mai naif, qualsiasi sia la ragione che l’ha generata. E probabilmente, in questo senso, la follia di Ligabue, il suo reale dramma esistenziale, è la cosa che lo rende simile a ognuno di noi. Come voleva Zavattini.