Il 24 febbraio del 2020 era stato licenziato in tronco dalla sua azienda, per cui lavorava da quasi vent’anni. Gravissima l’accusa: avere rubato quasi duemila euro che si trovavano in una busta lasciata sulle scale da un suo collega, incaricato di consegnarla agli uffici contabilità. Siccome pochi giorni dopo, poi, scattò il lockdown a causa della pandemia di Covid-19, l’operaio, romeno e oggi 44enne, non ha più di fatto potuto neppure cercare un nuovo lavoro per molti mesi. E a causa del procedimento penale per furto incardinato dopo la querela del legale rappresentante della ditta per cui lavorava, gli è stata pure respinta la richiesta di cittadinanza italiana che aveva presentato prima dell’accaduto.
La settimana scorsa però il tribunale lo ha assolto, perché il fatto non sussiste: quei 1.729 euro, abbandonati sulle scale dal collega che ha raccontato in aula di avere lasciato lì la busta che li conteneva solo per pochi istanti poiché gli era caduta e non l’aveva raccolta tenendo già in mano altri documenti, non sono stati sottratti.
La particolarità è poi che, applicando un articolo previsto dal codice di procedura penale non utilizzatissimo, il giudice Carmela Mennuni ha condannato al pagamento delle spese del procedimento penale anticipate dallo Stato e alla refusione di quelle di difesa sostenuta dall’imputato (3.500 euro) e al risarcimento del danno per quest’ultimo (1.500 euro) la parte offesa, ossia il querelante legale rappresentate della ditta per cui il 44enne lavorava. Il quale però, che pure era comparso a testimoniare, non si era costituito parte civile. Le motivazioni sono attese tra tre mesi.
C’è di più: la giudice, nella sentenza, ha anche disposto la trasmissione degli atti in Procura in merito alle testimonianze rese nel corso del processo dalla parte offesa stessa e dai colleghi testimoni del "furto" contestato, ritenute evidentemente ritenute contestabili, probabilmente per i reati di calunnia oppure di falsa testimonianza (o entrambe). Il pm titolare del fascicolo per furto era il dottor Marco Imperato.
Ora, intanto, il 44enne ha una nuova carriera ed è stato assunto da un’altra ditta bolognese; presto presenterà una nuova domanda per ottenere la cittadinanza, alla luce di questo esito. Esulta per il risultato l’avvocato del lavoratore, Marco Fusaroli: "Esprimo grande soddisfazione per la così netta sentenza emessa dal tribunale di Bologna che, in questa vicenda, non solo ha ricostruito la verità, ma ha anche restituito la dignità a una persona onesta e perbene".
Federica Orlandi