BENEDETTA CUCCI
Cronaca

"L’eredità di mio padre, cultura e curiosità"

A un anno dalla morte di Eugenio Riccomini, il figlio Marco lo ricorda: "Credeva davvero nella bellezza per migliorare il mondo"

Eugenio Riccomini, storico dell’arte, è scomparso un anno fa

Eugenio Riccomini, storico dell’arte, è scomparso un anno fa

Chissà cosa avrebbe detto dell’overtourism Eugenio Riccòmini. Delle masse che girano per Bologna e che nei momenti dell’anno più affollati (sempre di più) rendono impossibili quelle passeggiate "per le vie e le strade del centro storico di Bologna soffermandosi a vedere le facciate delle chiese e il loro interno", che ispirarono uno dei suoi libri più noti. Se n’è andato un anno fa, il giorno di Natale, e come ricorda il figlio Marco Riccòmini, art advisor ed esperto di arte a tutto tondo, certe trasformazioni della nostra città non le ha "nemmeno annusate". Anche per scelta.

’Inventore’ di memorabili format di divulgazione culturale, dalle conferenze d’arte per il ’Progetto giovani’ all’inizio degli anni Ottanta cui però volevano partecipare tutti, a ’Ospiti’ durante il suo mandato di direttore dei Musei Civici di Arte Antica dal 1995 al 2001, ovvero l’idea di ospitare opere di privati o di musei stranieri per mostrarle al pubblico, Riccòmini, storico dell’arte più sul campo che in Accademia, allievo di Stefano Bottari e Carlo Volpe, fu due volte vicesindaco e due volte assessore alla Cultura di Bologna, a lungo consigliere comunale. Con la sua scomparsa si è chiusa un’era di storici dell’arte/funzionari illuminati, di cui facevano parte, tanto per citarne due, anche Cesare Gnudi e Andrea Emiliani.

Signor Riccòmini, cosa avrebbe pensato dell’overtourism suo padre? "Ha avuto la fortuna di non accorgersene, perché gli ultimi anni vita li ha passati a casa e ha smesso di fare viaggi di una certa portata diversi anni prima di morire. Il fenomeno della globalizzazione non è riuscito neanche ad annusarlo perché dal punto di vista generazionale non era nemmeno immaginabile. La fretta che c’era fuori non l’ha incrociata, non ha nemmeno mai avuto cellulare e computer. E non perché sia arrivato troppo tardi, ma perché li ha rifiutati. Quando si è accorto che il mondo stava accelerando con una rapidità che non si è mai vista nella storia dell’umanità, lui ha deciso di tirare il freno a mano, pensando che fosse un mondo che non gli apparteneva e che però non gli interessava".

Poteva anche permetterselo dopo tutto quello che aveva fatto e innovato. Oggi idee come le sue possono nascere? "Tutto quello che lui è riuscito ad inventare lo ha potuto fare perché lui aveva uno spessore culturale che poi si è andato sgranando, soprattutto oggi. Personalmente giro, ascolto, guardo molto e mi rendo conto che, alla base delle manifestazioni artistiche che pure si susseguono per tutto il continente, è rarissimo trovare qualcosa che abbia uno spunto di particolare intelligenza, novità e creatività".

Perché? "Perché si tende a fare l’opposto di quello che faceva mio padre. Lui inventava un format come ‘Ospiti’ ad esempio, proponendo qualcosa al pubblico, oggi si rincorre il pubblico. Questo significa che io gestisco un posto magico come Palazzo Te a Mantova e l’unica idea che riesco a partorire è quella di farci una mostra su Picasso, allora significa che sto cercando di attirare il pubblico con un grande nome e non insegno nulla".

Che eredità le ha lasciato suo padre? "La convinzione che se tutti cominciassero ad amare ciò che hanno attorno di bello, il mondo sarebbe migliore. Per far si che questo accadesse, lui insegnava a guardare, a essere curiosi. Non per mettere un altro dito nella piaga, ma Bologna fino a l’altro ieri non aveva un assessore alla Cultura. Matteo Lepore è un amico, ma non ci si pone il problema nella città con l’università più antica del mondo".

Come si trasmette la cultura? "Su questo bisogna ragionare e allora sì che si insegna come amare e avere cura del bello. Questo mi ha trasmesso mio padre, oltre alla curiosità".