Bologna, 12 agosto 2023 – È entrata nello stabilimento bolognese de ‘La Perla’ quando aveva solo 19 anni. Per Barbara Prati, oggi 52enne, l’azienda di via Mattei è una seconda casa. Lei, come tante altre lavoratrici dello storico brand di lingerie, ha vissuto gli anni d’oro e il lento declino di un marchio che oggi rischia di scomparire.
Come state vivendo questo momento di estrema difficoltà in cui verte l’azienda?
"Molto male. L’ultimo mese non è arrivato nemmeno lo stipendio e noi siamo tutte donne con famiglie da portare avanti e mutui da pagare. Oltre al fatto che c’è anche il nostro benessere. Ci dispiace molto, dopo così tanti anni, vedere la nostra azienda buttata nelle mani di persone che pensano solo ai loro interessi e non ai nostri. Persone che non hanno badato all’interesse delle lavoratrici nel portare avanti un marchio che è da settant’anni sinonimo di estrema qualità. Il nostro è un prodotto che se arriva in negozio viene venduto, non ha bisogno di pubblicità".
Questa instabilità aziendale si è riversata anche sul vostro lavoro quotidiano.
"Indubbiamente. Nel nostro stabilimento mancano i filati, non ci sono i materiali. Addirittura sono sparite anche le etichette ‘La Perla’. Sono queste le cose che ci ricordano, ogni giorno, il lento declino dell’azienda. Non ci sono più le cose che ci servono per lavorare, da quelle indispensabili a quelle banali come ad esempio i rotoloni di carta per asciugarsi le mani. Io lavoro in un reparto dove vengono utilizzati molto i colori, quindi abbiamo bisogno di lavarci continuamente le mani. Ecco, siamo arrivate al punto che non abbiamo nemmeno il sapone".
Oltre al mancato pagamento degli stipendi c’è anche un problema legato al futuro di questa azienda. La vostra esperienza e passione rischia di perdersi senza essere trasmessa alle nuove generazioni.
"Certo, noi lo sappiamo e ci dispiace molto. Ora il grosso della produzione, in tantissime aziende, viene fatto con i macchinari. Noi facciamo ancora tutto a mano e la differenza, a prodotto finito, si vede. Guardandoci intorno ci siamo accorte che tantissime realtà ricercano figure specializzate nel nostro settore, noi lo siamo e rischiamo di perdere tutto. È svilente, anche perché noi che siamo cresciute qui dentro, che abbiamo vissuto i tempi d’oro del marchio, ci sentiamo chiedere: ‘Siete ancora aperti?’. Abbiamo fatto tanti sacrifici per aiutare l’azienda a rendere il prodotto così importante e quest’azienda non può e non deve morire così".
Avete paura per il futuro?
"Sì, ne abbiamo molta perché non vediamo, da parte della proprietà, l’intenzione di sviluppare un progetto che ci porti avanti negli anni. Non c’è un piano industriale, non c’è la voglia di rilanciare quest’azienda. La situazione è critica, non abbiamo alcun tipo di certezza e non vediamo un futuro, a oggi, né per noi né per le nostre famiglie".
Il 5 settembre è stato convocato il tavolo al Mimit. Come avete accolto questa notizia?
"Ci ha fatto piacere, ma non mi sento di dire che l’abbiamo accolta positivamente. Questo perché ci aspettavamo che si concretizzasse prima, visto che la chiediamo dagli inizi di luglio. Non so cosa ne verrà fuori, ma spero che si riesca a concretizzare qualcosa. A noi non importa chi sarà il nuovo proprietario, ci piacerebbe solo fosse qualcuno che ha davvero voglia di investire su di noi. Nell’epoca di Masotti è stato così".
Si spieghi.
"Eravamo circa 1.300 dipendenti e ci conoscevamo tutte. Ma soprattutto ci conosceva la proprietà. Eravamo una famiglia, avevamo rapporti con tutto l’interno dell’azienda. Prima sentivamo l’amore nei nostri confronti, c’erano dei rapporti umani, di grande collaborazione. Ora le cose sono cambiate. Ora siamo solo dei numeri a cui non tiene più nessuno, prima eravamo dei nomi a cui si trasmetteva amore".