Nella lingua giapponese esistono delle parole che non possono essere tradotte con un solo termine, ne necessitano diversi per renderne il significato altamente concettuale. Una di queste è Onkochishin, ovvero Non puoi andare avanti se non comprendi il passato. E l’artista Yumi Karasumaru ne ha preso l’essenza per dare il titolo alla sua nuova mostra Learning from the past, che si apre alla galleria L’Ariete domani alle 18. Di tempo ne è passato dall’ultima volta a Bologna. In mostra 25 opere circa. L’artista e performer giapponese che da 30 anni vive in città espone per la prima volta in questa storica galleria diretta da Patrizia Raimondi, partendo proprio da una parola specifica che rivendica l’importanza del passato: il suo è quello cominciato con la pandemia, che ha in effetti riscritto il mondo. In lei ha attivato una nuova riflessione pittorica, che per la prima volta introiettava i grandi artisti della storia dell’arte medievale e rinascimentale europea (riconoscerete tanti soggetti ma sarà difficile collocarli fuori dal contesto primordiale) e il periodo Edo in Giappone (dal 1600 al 1868), processati dal suo pensiero e dal suo stile in una continua ricerca di vicinanza con la natura e ritrovamento di se stessi.
Yumi Karasumaru, grazie a una parola ricca di sfumature, lei ha forgiato una nuova era della sua pittura. Come comincia?
"Comincia con il Covid, nel 2020. In quel momento inizio davvero una nuova ricerca che ancora continua. Nel 2021 ho esposto a Tokyo e poi di nuovo la scorsa estate. Questo all’Ariete si può definire il terzo capitolo, che presenta l’ennesima evoluzione di colori, soggetti, supporti".
Cos’è cambiato in quel momento, ormai quattro anni fa?
"Da quel momento, dentro di me si sono perfettamente allineati Oriente e Occidente come mai era successo, anche se sono a Bologna da 30 anni. La pandemia mi ha dato il tempo di ripensare, riguardare, ristudiare il passato dell’arte, Bosch, Duerer, Memling, Piero della Francesca, Van Eyck, Botticelli. Prima, tutto questo non mi sembrava così interessante, ma riflettendo e riguardando le opere ne ho compreso l’essenzialità e la forza, quegli elementi che sono davvero la base. Prima non mettevo mai la storia occidentale nei miei quadri, dopo la pandemia ho iniziato a mischiare dentro di me i due mondi e le due culture, non c’è più confine. È successo naturalmente, senza volerlo, come è successo con l’inclusione della natura per la quale mi ispiro ai disegni dei kimono e alla pittura ottocentesca giapponese del periodo Edo".
Tra le nuove produzioni tanti quadri con la base in oro, perché?
"Deriva sempre dalla pittura giapponese antica che utilizzava tanto oro, per i paraventi ad esempio, per le decorazioni sempre su carta. Sono quadri che partono dalla tradizione giapponese, fatti su tela però, con rimandi ai soggetti di Bosch, arricchiti da un uso del colore pop".
Poi ci sono le opere su carta, perché ci è arrivata solo ora?
"Tutto il periodo Edo usa la carta e in effetti in studio ho tanta carta, portata molto tempo fa dal Giappone, ma mai usata. Ad un certo punto credo che il mio processo artistico mi abbia portata a notarla e a sentire la necessità di utilizzarla, realizzando anche quadri meno colorati in cui si vedesse maggiormente la linea. Come già mi è successo con la tela tradizionale nei piccoli formati, costruisco io i miei telai con la carta, partendo dal legno che faccio preparare e che poi assemblo e inchiodo, perché mi interessa uno spessore maggiore del quadro, come mi interessano spessori diversi del segno in matita, ce ne sono almeno otto. Sono proprio agli antipodi del mondo digitale, degli Nft".
Benedetta Cucci