Angelo
Varni
Ormai tra fine Ottocento ed inizio Novecento, anche a Bologna, si stava diffondendo la consapevolezza della capacità della fotografia di fissare immagini ed istanti del mondo in grado, non solo, di rappresentare luoghi e persone nell’immediatezza della loro visibilità; bensì, di coglierne nel contempo più intime e durevoli sensazioni, degne di esprimere storie, relazioni, sentimenti intuibili nel dialogo impalpabile che si instaura tra quanto rappresentato e chi lo osserva magari pure con distratta attenzione.
Ecco allora l’aristocrazia e la buona borghesia cittadina pronte a rincorrere l’illusione di equipararsi così, attraverso gli scatti sapienti e studiati dei primi fotografi professionisti, all’antica tradizione nobiliare del dipinto d’autore. Tanto più che, in tal modo, ci si poteva dimostrare aperti all’esperienza di una “modernità” tecnicamente avanzata.
Fu, quindi, naturale ricorrere, ad esempio, all’abilità di ritrattista dalla raffinata maestria di Guido Malagola Cappi e alla sua personale visione di quello stile “pittorialista” che dagli anni di fine secolo caratterizzò in tutta Europa il tentativo di porre la fotografia, attraverso varie tecniche di manipolazione delle modalità di stampa dei negativi, al pari delle arti maggiori, quali, in particolare, la rappresentazione pittorica o disegnata, elevandone il ruolo di semplice e meccanica riproduzione del reale.
Figlio del ravennate Carlo Malagola, trasferitosi a Bologna nella veste di direttore dell’Archivio di Stato e di primo docente di Paleografia e Diplomatica all’Alma Mater, di cui compilò lo Statuto dell’VIII Centenario del 1888, Guido, nato a Bologna nel 1883, seguì il padre al momento (1898) del trasferimento di questi a Venezia per dirigervi il locale Archivio ai Frari (tra l’altro a lui si deve pure il riordino e l’inventariazione dell’Archivio di Stato di San Marino), entrando in familiarità con Mariano Fortuny, l’eclettico artista spagnolo, pittore, scenografo, illuminotecnico, inventore di stili e creatore di mode e tessuti dal successo internazionale, che diede al giovane allievo l’opportunità di approfondire la propria vena artistica, non solo nella fotografia (per questa collaborò pure ad una pubblicazione dedicata a San Marino dal ravennate, amico del padre, Corrado Ricci, il grande storico dell’arte, soprintendente, direttore generale delle Antichità e Belle Arti e certamente uno degli artefici fondamentali della tutela e della valorizzazione del patrimonio storico-artistico italiano), ma pure nel designer e soprattutto nell’arredamento di interni.
L’acquisizione di tali competenze permise a Guido, dopo il conflitto mondiale, di trasferirsi dapprima a Roma, per fondarvi la Società Italiana Decorazioni e Restauri e poi di abbandonare l’Italia per svolgere in Jugoslavia ed in Ungheria il compito di arredatore dei palazzi dei due rispettivi sovrani. E fu proprio a Budapest che morì nel 1941, ancora nel pieno delle sue attività.
Per simili attitudini, in particolare nel campo della fotografia artistica, furono, quindi, numerosi gli esponenti del bel mondo bolognese che a lui si rivolsero per essere immortalati in ritratti di ricercata personalizzazione psicologica e di sontuosa elaborazione grafica, come quelli, oltre al suo “autoritratto”, di Ugo Gregorini Bingham (poliedrico amante di molti sport, dal tennis alla scherma, all’ippica, cacciatore e presidente del Circolo della Caccia e dell’Automobile Club, portando in quest’ultima veste a Bologna nel 1908 la terza edizione della Coppa Florio; ed ancora sindaco per un mandato quadriennale di Casalecchio dove risiedeva); dell’arcivescovo Giacomo della Chiesa, il futuro papa Benedetto XV, ricordato per i suoi continui appelli auspicanti la fine della guerra, definita “inutile strage” e “suicidio dell’Europa civile”; e di nobildonne ritratte nella ricchezza opulenta dei loro più eleganti ed elaborati abbigliamenti e incorniciate come scintillanti cammei, quali, tra le altre, le signore Cacciaguerra, Bonori ed Elena Bizzi Rizzoli.