La ‘macchina perfetta’. La regola del silenzio e solo soci di famiglia: "Tra noi non tradiamo"

Le intercettazioni dimostrano la struttura piramidale del gruppo. Il capo imponeva anche con che macchine girare: "In Porsche vi si nota".

La ‘macchina perfetta’. La regola del silenzio e solo soci di famiglia: "Tra noi non tradiamo"

La ‘macchina perfetta’. La regola del silenzio e solo soci di famiglia: "Tra noi non tradiamo"

"In Italia, babush, se sei figlio di p...a e sei intelligente fai soldi e nessuno ti dice nulla". Così parlava il trentottenne ritenuto capo dei trafficanti albanesi, spiegando a un amico i vantaggi dell’imprenditoria nel Belpaese. Dove lui, il fratello e i cugini, come ricostruito dai carabinieri, negli ultimi dieci anni avevano avviato un fiorente business, importando la coca dal Sudamerica - attraverso canali che i militari stanno ricostruendo - e poi smerciandola agli spacciatori bolognesi. Un affare di famiglia, la cocaina, perché come spiegava, intercettato, il cugino del capo, "gli albanesi lavorano solo con i parenti, ed è difficile che qualcuno li divida. Invece i moldavi si associano perché sono amici e se a qualcuno gli tira il culo molla". E così anche i proventi di questo affare circolavano solo in famiglia: stando a quanto accertato dagli investigatori, i soldi provento della vendita di importanti partite di coca venivano spediti in Albania, trasportati da corrieri fidati in lunghi viaggi in bus fino in Puglia e poi via mare in patria. Da qui tornavano poi agli indagati in Italia, sotto forma di regali o ‘aiuti economici’ inviati ai parenti emigrati in Italia.

Un sistema insospettabile, perché gli attuali indagati, sulla carta, svolgevano tutti lavori onesti e modesti. Che si tenevano stretti, per mascherare la loro vera fonte di reddito. Così come non ostentavano i guadagni ‘sporchi’. Ancora una volta, era il capo a dettar legge: "Se vai in giro con una Peugeot non ti vede nessuno. Se hai una Porsche ti notano tutti, anche i neri (le forze dell’ordine, ndr)". L’obbligo, quindi, per chi voleva entrare nella sua società era quello di non strafare. Il vantaggio, per gli appartenenti al gruppo, era un sostanzioso stipendio fisso, con mezzi e telefoni forniti dalla ditta.

Uno stipendio a cui difficilmente si voleva rinunciare. Nelle maglie della corposa ordinanza (256 pagine) disposta dal gip Pecorella, emerge infatti il disappunto di alcuni sodali, rispediti dal capo in Albania con l’obbligo di non tornare a seguito di un sequestro da 13 chili di coca, eseguito dai carabinieri nell’aprile del 2022. Un blitz che aveva subito messo in allerta il trentottenne albanese, a seguito del quale aveva chiamato tutti i soci a casa sua. La ‘riunione’, monitorata dai carabinieri attraverso le telecamere sistemate fuori casa dell’indagato, era stata l’occasione per riorganizzare tutta la squadra: chi aveva preso parte alla gestione di quella partita andata perduta doveva tornarsene a casa. Fino a data da destinarsi. Le lamentele dei ‘confinati’ non erano mancate: perché lavorare per la banda, a quanto pare, era un privilegio.

Lo pensavano persino le giovani prostitute romene sfruttate dal gruppo. Stando a quanto emerso, infatti, diverse delle ragazze messe sulla strada sarebbero andate in prima persona a chiedere di poter lavorare sotto l’ala del sodalizio albanese. Erano gli italiani (tre i destinatari di misure, due calabresi e un siciliano) a gestirle, andandole a prendere a casa e poi portandole a ‘lavoro’ in zona Corticella, controllando che i clienti si comportassero bene e intascando parte dell’incasso per la prestazione sessuale. Una volta ‘assunte’ le ragazze rimanevano vincolate quattro anni alla banda, per poi affrancarsi. "Se ce l’hai un cuore dopo quattro anni le liberi – dicevano gli sfruttatori – e non chiedi loro più neanche un euro".

Nicoletta Tempera