di Donatella Barbetta
"Rimasi impietrito quando i medici mi spiegarono che mi sarei salvato solo con un trapianto di fegato, di cui non sapevo nulla". Gian Luigi Topran D’Agata (nella foto), 82 anni, di Casalecchio, è il testimone della fase pionieristica dell’attività trapiantologica sotto le Due Torri.
Come andò?
"Purtroppo avevo una cirrosi causata da un’epatite di tipo C. Era il 1994 ed entravo e uscivo dal Sant’Orsola, sentendomi sempre più debole perché quando il fegato non funziona il deperimento è drammatico: avevo il colorito di una mummia e in più di un’occasione ho rischiato di morire. Poi arrivò la telefonata".
Quale?
"Quella in cui mi dicevano che era disponibile un fegato adatto a me. ‘Non vengo, mi sento in colpa verso la famiglia che è nel dolore’, risposi. Poi mi richiamarono. ‘Ma come fa ad avere il coraggio di rifiutare un dono disinteressato?’, mi chiesero i chirurghi dell’équipe del professor Giuseppe Gozzetti. E accettai".
Ricorda l’ingresso in sala operatoria?
"Certo. Era la notte del 4 novembre e mi dicevo chissà dove finirò, magari tra i santi".
La prima sensazione al risveglio?
"Ho sentito tornare la vita. E per ringraziare del dono ricevuto decisi di fondare un’associazione e lo promisi davanti a un infermiere esterrefatto".
Quanto tempo rimase ricoverato?
"Solo 19 giorni, durante i quali furono trapiantati altri 5 pazienti arrivati da ogni parte d’Italia. Avevo fretta anche di fare sensibilizzazione per le donazioni. Al rientro prima scrissi al Carlino una lettera di ringraziamento per i medici e il donatore e poi iniziai a lavorare per l’associazione, nata l’anno successivo, un mese dopo la scomparsa di Gozzetti, al quale fu intitolata in segno di gratitudine".
Quanti aderirono all’Associazione trapiantati di fegato?
"Alcune centinaia di pazienti provenienti da varie Regioni. La quota d’iscrizione era di 200 mila lire e con i soldi raccolti comprammo, tra l’altro, i primi cellulari per i medici che andavano a prelevare gli organii. Ma questo è il passato e, per fortuna, il trapianto è diventato una terapia di routine".
L’associazione fu coinvolta nel percorso della legge regionale del 1995?
"Il rapporto dell’associazione con la Regione era continuo e portavo alle riunioni la nostra esperienza di trapiantati e la richiesta di iniziative per accrescere la cultura della donazione".