di Luca Orsi
Padre Marella è stato un innovatore nel campo dell’insegnamento e della pedagogia. Il cosiddetto ‘metodo Marella’ – che applicò prima ai bambini di Pellestrina, poi, con gli opportuni adattamenti, ai liceali bolognesi del Galvani e del Minghetti – andava controcorrente rispetto al formalismo scolastico dell’epoca.
A Pellestrina, il giovane Marella apre un Giardino d’infanzia. Si ispira al noto pedagogista mantovano Ferrante Aporti, pioniere dell’educazione scolastica infantile; e più tardi adotta il metodo Montessori, che prevede l’introduzione di classi mista come "principio pedagogico essenziale a un’armonica formazione del fanciullo". Una scelta che causò non pochi malumori e forti ostilità fra le autorità civili e religiose del tempo.
Alla base della pratica pedagogica di padre Marella c’era l’autogoverno, che si rifaceva alle moderne tesi di Antonio Rosmini. Una teoria messa in pratica al Ricreatorio popolare di Pellestrina, che era autogovernato. "Il consiglio – scrive Carmela Gaini Rebora in Padre Marella, l’orgoglio vinto dalla carità – si componeva di sei ragazzi: presidente, vicepresidente, due consiglieri, segretario e bibliotecario. Durava in carico un anno ed era rinnovato con libere elezioni".
Il giovane sacerdote riteneva l’autogoverno un mezzo di emancipazione sociale e spirituale. E sosteneva "l’importanza della responsabilità per formare l’uomo in tutta la sua completezza".
Il sistema educativo di padre Marella era incentrato sul rispetto della persona, la libertà e la responsabilità dei singoli, sulla fiducie e il rispetto fra maestro e discepolo. Tutta altra cosa rispetto al metodo repressivo in vigore nelle scuole, civili e religiose, dell’epoca.
Con le tesi dell’Aporti, scrive Lorenzo Bedeschi in Padre Marella, un prete accattone a Bologna, don Olinto "si trovava in piena consonanza di intenti, per via di una pedagogica che ‘non è sterilmente livellatrice, ma stimolatrice, feconda di ingegni e di volontà. Che non è avvilimento e compressione dall’esterno, ma elevazione e liberazione interiore".
Anche nei decenni di insegnamento nelle scuole pubbliche, don Marella non cambiò impostazione. "Si rifiutava di sedere in cattedra, non pronunciava minacce, non affibbiava punizioni", ricorda il giornalista Indro Montanelli, suo allievo al liceo di Rieti.
Il metodo didattico di padre Marella – che insegnava Filosofia – quasi ignorava registri, appelli, voti, libri e manuali. Detestava che si ripetessero le lezioni ‘a pappagallo’, come usava. "Lo si poteva considerare un metodo di derivazione socratica", scrive Bedeschi.
Il professor Umberto Marcelli, ex allievo del Galvani, ricorda Marella "passeggiare fra i banchi, sollecitandoci al colloquio e alla discussione dovo averci posto un problema, attendendo da noi non una risposta, ma l’aiuto a svolgere la lezione", sviluppando i ragionamenti che il problema poneva.
Padre Marella invitava i suoi allievi a non seguire pedissequamente i libri di testo, ma a utilizzarli per trarne spunti di riflessione e discussione. Li incoraggiava "a ragionare sulle teorie proposte dai maestri del pensiero, – scrive la Gaini Rebora – li invitava a esporre le proprie idee, perfino a confutare quanto veniva enunciato".
Ricorda ancora Marcelli: "Secondo Marella lo studio soltanto a base di mnemonica, con al centro le interrogazioni, poco potevano servire a provocare l’elevazione del nostro grado di coscienza". "La bravura gl’importava così poco – arrivò a dire Montanelli – che a fine anno ci promosse tutti".
Nonostante il metodo di insegnamento assi poco ortodosso per i canoni dell’epoca, padre Marella era rispettato dai colleghi. La professoressa Evelina Mori, docente di Greco e Latino al Minghetti, ricorda come, appena assunta al liceo, notò subito "un grande affiatamento fra gli insegnanti, adornato di reciproca comprensione. E non mi fu difficile notare che il perno di tutto era la presenza del professor Marella. La sua barba bianca, il viso austero, ponderato nel linguaggio, autorevole quando si faceva cenno a un giudizio sugli allievi".
Pur insegnando Filosofia, Marella raccomandava, invece della lettura dei testi filosofici, quella dell’autobiografia di Ellen Keren, un’americana nota perché, nata cieca e sordomuta, era riuscita a diventare scrittrice. "Servi a a dimostrare la tesi cara a Marella – scrive ancora Montanelli –: cioè che l’uomo, per affermare la realtà circostante, non ha bisogno di sensi, perché questa realtà l’ha già in sé sotto forma di idea".