"E’ la luce, la verità, la vita. E allora si afferrano il significato e la forza di questo pittore che è pittore fino al midollo delle ossa". Così Dino Buzzati chiude, nel 1970, la recensione a una rassegna dedicata a Ilario Rossi. Un Rossi che, seguendo la lettura offerta da Adriano Baccilieri nel 1980, sembra offrire alla poetica degli ultimi naturalisti di Francesco Arcangeli un’originale percorso. Dopo la personale alla Biennale di Venezia del 1964, Rossi orienta il proprio gesto artistico oltre i limiti dell’informale naturalistico.
Artista di raro talento naturale, non può rinunciare al dialogo inesauribile di due anime complementari: la forma e la sua architettura, da una parte, e, dall’altra, la seduzione per i moti spirituali che mettono in discussione la compiutezza dell’immagine. L’educazione per il rigore nell’architettura compositiva nasce nel corso di studi all’Accademia di Belle Arti, ed è allievo di Giorgio Morandi al corso di incisione. Un Morandi cui tuttavia si affiancano – a partire dal 1935 – nuove figure: il “Novecento” inquieto e problematico di Virgilio Guidi all’Accademia, e la prepotente lezione di Roberto Longhi all’Università.
Come testimonia la mostra recentemente inaugurata in Santa Maria della Vita, ’Ilario Rossi. Unico movimento’ promossa dalla Fondazione Carisbo e da Genus Bononiae, a cura di Mirko Nottoli (fino al 4 febbraio) sono questi gli anni in cui in Rossi nascono le immagini degli orti al limitare della città, delle case, dei muri rustici. Una riflessione lenta e severa, accorata e sussurrata, che secondo Luigi Carluccio lasciano emergere Rossi "con pochi altri da quella fascia di mezzo della vita italiana, la fascia complessa e inquieta tra le due guerre, che dentro le mura di Bologna ed in genere nei territori dell’Emilia Romagna si rivela sperimentata su un tono apparentemente provinciale, se tale si intende la consuetudine a rivolgere lo sguardo interiore, come per un controllo continuo della giustezza delle proprie posizioni, alle linee più profonde della tradizione; ricercando nel loro naturale processo storico le motivazioni e le cadenze del tempo presente". In una parola, il rigore morandiano si stempera; interni, paesaggi, figure, nature morte, sono pervase da una vena intimista; l’impianto formale si nutre di una empatia sentimentale.
L’ ultimo naturalismo di Francesco Arcangeli risulta essere l’approdo, pur temporaneo, della riflessione di Rossi: un inedito, rinnovato rapporto con la visione naturale, che si affida più all’emozione che non al controllo della mente. Eppure, la ’seduzione informale’ non risolve certamente la complessità del periplo di Rossi. La costante tentazione di rendere anche le emozioni più laceranti in “bella pittura”, lontana dalle sfrenatezze che si consumano nell’informale, conducono l’artista nella sua maturità. L’ ’unico movimento’ è in fondo la continuità della pittura di Ilario Rossi: senza eccessi o scelte radicali, la storia dell’artista è una sequenza di meditazioni sul paesaggio, nelle sue forme più disparate, più che una sua rappresentazione. Uno sfogliare, una pagina dopo l’altra, una storia.