LETIZIA GAMBERINI
Cronaca

Il cappellano del Pratello: "Insegno la speranza con Seneca e la trap"

Don Domenico Cambareri racconta il ’suo’ Pratello nel libro ’Ti sogno fuori’ "Non è facile stringere la mano a un assassino, ma è figlio nostro anche lui".

Il cappellano del Pratello: "Insegno la speranza con Seneca e la trap"

Don Domenico Cambareri racconta il ’suo’ Pratello nel libro ’Ti sogno fuori’ "Non è facile stringere la mano a un assassino, ma è figlio nostro anche lui".

Con i ragazzi dell’Istituto penale minorile del Pratello parla di Platone e rapper come Jake La Furia. "Mostro loro che certe cose cantate da Marracash le hanno dette Seneca, Gesù, il Corano. È un processo molto creativo". Don Domenico Cambareri, da 4 anni cappellano dell’Ipm, lo racconta nel libro Ti sogno fuori. Lettere da un prete di galera (Ed. San Paolo), uno scambio di lettere con Y, un giovane che ha scontato la sua pena ed è tornato libero. Si intreccia un dialogo che accende una luce sulla quotidianità in carcere e, fra citazioni che spaziano dalla trap, a Mare Fuori e al Giovane Holden, si aprono squarci sulle vite di ragazzi che – si legge nella prefazione di Susanna Marietti (associazione Antigone) – "sono abituati a non importare". L’autore presenta il volume lunedì all’Ambasciatori, alle 18.30, con Antonella Matassa. "Paradossalmente – spiega Don Domenico, che ha una formazione umanistica – il carcere è l’ultimo posto in cui si scrivono lettere, visto che i ragazzi non hanno accesso ad altri sistemi. Io stesso ho dovuto imparare di nuovo a scrivere a mano. E dunque ecco questa forma ibrida in cui cerco di tratteggiare le questioni fondamentali di un Ipm, in modo più leggero. Ma non meno impegnativo".

Nel testo c’è molta trap.

"C’è il loro linguaggio, l’ho dovuto imparare, con difficoltà. Un linguaggio musicale, che è anche affettivo e relazionale, che ho cercato di tradurre in un clima di sentimenti. In un Ipm ci sono ragazzi e c’è anche un grande clima affettivo. Non è solo un luogo di violenza".

Ma ci sono anche i "suoi trapper", come Seneca. C’è qualcosa che attraversa i tempi?

"I ragazzi ascoltano tantissimo quel mondo dalle celle, dà loro i riferimenti culturali più immediati. Sono giovani con enormi problemi, ma capita di parlare di Seneca o Platone. Non è un espediente letterario. Io porto il mio percorso: sono un prete di 43 anni che parla con minori non accompagnati tunisini, tiro fuori un concetto di Seneca e se ne discute. Capitano questi miracoli".

Definisce i minori non accompagnati una delle comunità più abbandonate dell’occidente.

"Nessuno rivendica i diritti e i doveri di questi ragazzi, che non avendo famiglie e adulti di riferimento sono completamente abbandonati e in balìa di loro stessi, nel bene e nel male".

Su questo parla di una responsabilità collettiva, anche delle istituzioni.

"È irresponsabile, come comunità adulta, addossare ai ragazzi le responsabilità di tutto. A livello sociale non possiamo lavarcene le mani: loro sono i nostri figli quando hanno successo e anche quando commettono i reati più atroci".

E nella nostra città ci sono stati recenti fatti di cronaca.

"Non viene spontaneo, anche per me non è stato facile, l’altro giorno, stringere la mano al ragazzo che ha ucciso un coetaneo, Fallou. Ma l’ho fatto con la consapevolezza: io sono responsabile per te, c’entro con quello che hai fatto. Fallou è nostro figlio, ma è nostro figlio pure l’assassino. Anche i ragazzi che sbagliano rimangono figli della collettività".

Non è sicuramente facile accettarlo.

"È chiaro che in questi casi il carcere ha senso, ma se vogliamo immaginare i ragazzi fuori dobbiamo giungere a un superamento del carcere dopo un certo periodo".

Un riscatto è possibile?

"Solo la scuola, il lavoro ed esperienze di discontinuità rispetto al loro passato possano dare una possibilità ai ragazzi. Se no, non si va da nessuna parte, come sta accadendo. A parte i casi veramente pericolosi a livello sociale – che ci sono e per cui serve un contenimento forte – tanti altri giovani meriterebbero comunità che si costruiscano attorno a quei tre pilastri. Ma ci vogliono risorse, una visione, un sogno. Bisogna sognarli fuori".

Nell’ultimo periodo si è parlato più volte di evasioni, a volte tentate, a volte riuscite.

"I problemi sono parecchi e ho la sensazione che il personale sia costretto a gestire situazioni più complicate rispetto ai mezzi e alle risorse. Se il carcere minorile diventa come quello degli adulti, un mero contenitore repressivo, diventa un luogo tossico per tutti, anche per il personale. Spero che il libro dia animo anche a chi ci lavora".

Nel libro dice che anche la Chiesa dovrebbe fare di più.

"Andando alla ricerca e organizzando luoghi che intercettino questi ragazzi ad altissimo rischio. Se ci occupiamo solo dei buoni, lo diceva anche Gesù, abbiamo sbagliato il nostro lavoro. Non ha senso fare solo una scuola per l’alta borghesia e non andare nei posti dove non vuole andare neanche lo Stato".

Quali incontri in questi anni l’hanno colpita di più?

"Mi colpisce quando i ragazzi mostrano il loro lato più fragile, quando piangono, quando ti abbracciano o ti stringono la mano. In quei momenti li vedi restituiti a una sorta di innocenza giovanile. È un momento che mi fa sempre sperare".