Come si fa a diventare attori di culto per registi importanti come Daniele Lucchetti, Nanni Moretti o Paolo Sorrentino? Silvio Orlando si schernisce: "Non voglio autocelebrarmi ma probabilmente trovano in me un unicum rispetto ad altri. Magari mi chiamano se c’è bisogno di una sfumatura, un tocco di colore.... Diciamo che sono un buon gregario per registi in cerca di quel qualcosa". Reduce dal successo sul grande schermo di Parthenope, Orlando è tornato in questi mesi a teatro per la ripresa dell’applaudito allestimento di Ciarlatani scritto e diretto da Pablo Remon. Ci sono due personaggi (Anna, giovane attrice dalla carriera in stallo, e Diego, regista maturo di film commerciali), c’è la figura di un padre ingombrante e... molto altro. Un’architettura di racconti paralleli per sollevare una riflessione sul successo, sul fallimento e sui ruoli che ricopriamo dentro e fuori la finzione. Ciarlatani, interpretato anche da Francesca Botti, Francesco Brandi e Blu Yoshimi, è in scena da domani a domenica all’Arena del Sole di Bologna. Orlando, come è nato lo spettacolo?
"In modo casuale. Il mio amico Javier Camara, l’attore spagnolo che interpretava al mio fianco il cardinale Gutierrez nella serie tv The New Pope, mi ha invitato a Madrid per vedere la commedia con la quale aveva deciso di tornare a recitare in teatro dopo vent’anni. È un interprete che stimo molto e che ha un percorso simile al mio. Mi sono innamorato del testo, delle parole e dell’immediatezza del linguaggio. Alle prime repliche avevo avuto qualche perplessità perché mi pareva che il tutto non mi corrispondesse. Ora lo spettacolo ha preso una gradevolezza e una profondità che mi sorprendono".
Una vicenda a scatole cinesi che rappresenta una riflessione sul mestiere dell’attore?
"Al di là della satira sterile sulla gente di spettacolo, emerge un altro livello che riguarda tutti, l’accettazione del fallimento. È difficile venire a patti in questa epoca con le crisi e con gli errori, non è semplice avere pietà per se stessi. La vita va vissuta con pienezza senza ammantarla di ipocrisie e il fallimento è solo un’occasione per crescere".
È per questo che il titolo originale ‘Los farsantes’ è diventato ‘I ciarlatani’?
"Ci pareva un termine immediato. In un’epoca in cui si è preda del giudizio degli altri, le sconfitte ci fanno sentire perdenti. Non è uno spettacolo dai canoni classici. Qui il pubblico deve sforzarsi a seguire, come in un viaggio mentale, i fili del racconto, il gioco del teatro nel teatro, la forza immaginifica".
Ha detto che si rifugia nel teatro perché non le mette ansia. In che senso?
"Questo è il mio posto d’elezione. Lavorare sul palcoscenico comunica meno stress perché tutto è riparabile e niente, come al cinema, è fissato per sempre. Il teatro è il mio piccolo giardino dove ogni sera curo, sistemo e rimetto in ordine le cose. Io poi sono un attore pacificato, non ho ambizioni da regista o drammaturgo".
Cosa l’aspetta in futuro?
"Un film che segna il debutto al cinema di una drammaturga preziosa e anomala come Lucia Calamaro. Di lei ho interpretato in teatro Si nota all’imbrunire. Il titolo del film, Permafrost, allude al terreno perennemente ghiacciato dell’Antartide. Fortunatamente lo giriamo in Italia, mi è bastata la polmonite che ho rimediato l’anno passato".