Cinque patteggiamenti e nove condanne con rito abbreviato. È questo il primo bilancio del processo che vede imputate 32 persone, la cosiddetta ‘banda del buco’, accusate a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata a reati contro il patrimonio, reati fallimentari e tributari, bancarotta fraudolenta, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, emissione di fatture per operazioni inesistenti, riciclaggio, autoriciclaggio e favoreggiamento. In 18 sono stati invece rinviati a giudizio. In sostanza, i bancarottieri ritenuti "seriali" rilevavano attività, per lo più supermercati, e li spogliavano di tutti i beni di valore quando erano già in crisi. Per esempio, 25 punti vendita sull’orlo del fallimento sarebbero stati trasferiti a ’new-co’ riconducibili all’associazione, impedendo la riscossione di 3,3 milioni di euro di tributi.
Il maxi blitz della Guardia di Finanza – coordinata dalla Dda e dal pm Roberto Ceroni, su disposizione del gip Andrea Salvatore Romito – aveva portato lo scorso luglio all’esecuzione di 25 misure cautelari tra arresti e obblighi di firma in mezza Italia e al sequestro preventivo di beni per un valore totale di 32 milioni di euro. Tra gli imputati anche Riccardo Pieraccini, 63 anni, ritenuto uno dei capi del presunto sodalizio (gli altri sarebbero Fiore Moliterni di Crotone e il foggiano Domenico Pilato, entrambi di 62 anni) e suo figlio Filippo, detto Pippo, 31 anni, per l’accusa "referente" del padre, difeso dall’avvocato Gabriele Bordoni, e condannato ieri in abbreviato a 4 anni e 5 mesi di reclusione. Sono state patteggiate pene da un minimo di 2 anni e sei mesi a un massimo di 4 anni e otto mesi. Per gli altri imputati che hanno scelto invece l’abbreviato, si va da condanne minime di tre anni a massime di sei.
In carcere è finito anche Massimo Vivoli, presidente di Confesercenti nazionale dal 2015 al 2017 e poi componente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro: per l’accusa si sarebbe "messo a disposizione del sodalizio" dando alle loro trattative più "credibilità", per poi disinteressarsi delle holding di cui avrebbe finto di acquistare delle quote. Secondo la Procura, a partire dal 2020, la banda avrebbe messo in campo un rodato sistema di fallimenti a catena, con i "bancarottieri seriali" che acquistavano tramite prestanome società in crisi e le ripulivano dei beni di valore, portandole al fallimento. Le liquidità sottratte venivano poi ‘ripulite’ grazie a fatture fasulle e l’invio del denaro in Cina.
Chiara Caravelli