Pacoda
(Bologna)
È una storia avventurosa, ricca di incontri casuali e di porte che si aprono all’improvviso, quella di Don Backy, nome d’arte di Aldo Caponi, sin da quando, ancora adolescente, sogna l’America di Elvis ed era destinato a un lavoro di ragioniere in una conceria di Santa Croce sull’Arno, il paese dove viveva la sua famiglia. Il cantante, che si appresta a pubblicare un nuovo libro di memorie, si esibirà questa sera a Porretta Terme al Cinema Teatro Kursaal (ore 21.00) .
Don Backy, è vero che se non fosse stato per un film, lei non avrebbe mai fatto il cantante? "È verissimo, la mia carriera è costellata di fortunate casualità. Erano anni difficili, venivamo dalla guerra, e tutto quello che arrivava dall’America era circondato da un alone di mitologia. Nel cinema del paese dove vivevamo, in Toscana, per un ragazzo l’unica aspirazione era lavorare in una conceria. Non c’era nulla da fare se non andare al cinema. E nell’unica sala davano ‘Senza tregua rock’n’roll,’ un film con tante star d’oltreoceano, come Bill Haley. Lì ho scoperto il rock’n’roll. Era un altro mondo, era nata la figura dell’adolescente, che prima non esisteva. E c’era una musica che rappresentava noi ragazzi. I cantanti in voga in Italia, allora, erano Nilla Pizzi e Claudio Villa".
In quella sala la sua vita cambiò.
"Certo, è impossibile immaginare quello che succedeva durante le proiezioni, tutti ballavano dappertutto, avevamo scoperto la sensualità. Eravamo diventati dei selvaggi, venivano divelte le poltroncine. Il rock’n’roll riuscì a incanalare una rabbia e una voglia di rivalsa sulla società molto pressante. Il mio destino sarebbe stato quello di fare il ragioniere in una conceria. E’ proprio il caso di dire che il rock mi ha salvato la vita".
Così provò a emulare i suoi idoli.
"Avevo bisogno di raccontare delle storie. E ne avevo una a disposizione, quella di un mio amico e la sua fidanzata che erano scappati di casa per amore. Si rischiava la galera…Io le cambiai nome in Kleiner Agaton e la misi in musica, accompagnato da un gruppi di coetanei, e impiegai i pochi soldi che avevo per incidere e stampare un disco, ‘La storia di Frankie Ballan, a mio spese. Qualche centinaio di copie. Una la feci inserire nel juke box bar del paese. Le altre ce le ho tutte ancora a casa. Adesso valgono una fortuna"
Come avvenne il grande salto?
"Ancora una volta mi venne in aiuto il caso. Mia sorella, faceva la parrucchiera, tornava a casa in treno e trovò una copia di un giornale, dove si diceva che Adriano Celentano aveva aperto a Milano una casa discografica, il Clan e cercava artisti esordienti da mettere sotto contratto. E fu lei a convincermi a mandare il disco. Io ero sicuro che non sarebbe servito a niente"
E invece...
"In realtà non successe nulla per moltissimo tempo. Provai a telefonare a un numero che avevo trovato, era quello di casa del fratello di Adriano, che Celentano aveva chiamato con sé per farsi aiutare. Mi disse che i cantanti da far esordire erano già stati scelti, erano Ricky Gianco e Guidone. Mi salvò il leggendario Detto Mariano, grande produttore e suo braccio destro, che si incuriosì per il mio nome, che aveva letto sulla copertina del mucchio di dischi destinati al dimenticatoio. Lo ascoltò, gli piacque, se ne innamorò, chiamo Adriano e glielo fece ascoltare al telefono".
Ed è iniziato tutto.
"Adriano non era particolarmente convinto, ma era molto amico di Detto, così, per fargli piacere, gli chiese di raggiungerlo a casa sua per ascoltarlo sul suo gigantesco hi fi. Era presente la sua fidanzata di allora, Milena Cantù, che sarebbe diventata poi la ‘Ragazza del Clan’. A lei devo tutto, si innamorò della canzone e spinse Adriano a convocarmi a Milano. Mi arriva la sua telefonata e il giorno dopo ero un artista del Clan"
L’avvio di una carriera sfolgorante, ricca di soddisfazioni.
"Forse la più grande è stata aver avuto l’onore di scrivere per Mina. Lei voleva a tutti i costi un mio brano. Io, allora, ero un folle, scrivevo guidando di notte in macchina in autostrada. Avevo un block notes attaccato al volante, non percepivo il pericolo, e, appena arrivava l’improvvisazione, componevo. Una sera del 1971 fui preso dallo sconforto, dalla solitudine, riflettevo sulla condizione umana e venne fuori, ‘Sognando’, una canzone sulla condizione dei malati di mente, ben prima della Legge Basaglia. Un brano duro, che aveva poco a che fare con la canzone leggera. Mina lo volle cantare, era in sala di registrazione, io ero in un ristorante sui Navigli a Milano, mi fece cercare perché non trovava l’intonazione giusta, mi chiese di cambiare delle strofe, di aggiungerne altre. La versione definitiva la scrissi su un tovagliolo di carta che il suo autista gli recapitò in studio. Mi piace ricordare che per tre volte lo presentammo al Festival di Sanremo e venne scartato".