Bisogna tornare ai classici. Davanti a cataclismi come i disastri ambientali, le pandemie e le carestie è necessario andare a cercare parole antiche e illuminanti. La natura va lasciata libera o, come diceva il filosofo inglese Bacone, va sollecitata e tormentata? Ma aggredirla non porta forse all’aumento delle temperature, allo scioglimento dei ghiacciai e alle alluvioni? E dove sta il punto di equilibrio fra la Bibbia che chiede di difenderla, il marxismo che ne invoca la trasformazione e gli stoici che suggerivano di vivere secondo le sue leggi? Ivano Dionigi, professore emerito di letteratura latina e ex rettore del nostro ateneo, analizza la questione partendo da testi antichi e lo fa oggi alle 18 nella sala Bolognini di San Domenico nell’ambito del Festival ‘Pandora’. Il titolo del suo intervento ‘Dedalo: l’uomo e la natura’ racchiude un ragionamento articolato e complesso. Perché la mitologica figura di Dedalo, inventore del labirinto, diventa una sorta di allegoria della conquista (arrogante?) delle vette umane.
Professore, partiamo dall’inizio. Che idea avevano i classici del progresso?
"Non riponevano alcuna aspettativa sul futuro, preferendo restare ancorati alle utopie del passato come l’età dell’oro. Avevano una concezione ciclica della storia e ritenevano che la speranza fosse un inganno. È il cristianesimo a introdurre la speranza e la concezione lineare e non più circolare della storia, una visione laicizzata poi dal marxismo".
Se la natura è imperfetta, serve un intervento dell’uomo. Che, dice Lucrezio, può operare solo su un terzo della superficie terrestre, essendo l’altra parte inagibile. Lo stesso Lucrezio ha però un’idea particolare di progresso?
"Non crede nell’età dell’oro e rivendica la durezza della vita primordiale. Racconta di come gli esseri umani si siano civilizzati, facendo leggi, fondando città e stabilendo patti. Poi, arrivati al vertice, hanno scoperto la ‘res’, è cioé la proprietà privata, il capitale: hanno smesso di vestirsi con le pelli preferendo le porpore, si sono affezionati alla fama e al potere e, causa dell’avidità, hanno escogitato inganni e fatto scoppiare guerre. Prima morivano di fame, ora di troppo cibo".
Dunque, al progresso corrisponde un regresso morale? Come dire, si stava meglio quando si stava peggio?
"È così. Lucrezio rimpiange la vita prior delle origini, nella quale l’uomo cerca di resistere con la propria forza alla violenza della natura matrigna. Con l’arrivo del progresso, sostiene il filosofo, l’unica arma contro il potere economico e politico è la ‘sapientia’ predicata da Epicuro, che pone fine a passioni e paure. Perché il male è dentro di noi".
Che finestra sull’attualità apre tutto questo?
"Lucrezio si preoccupa della vita autentica, che ritiene compromessa dal progresso, e della felicità individuale, il vero e unico fine della vita. Le tecnologie oggi rischiano di essere fini a se stesse. Ippocrate diceva che dove c’è amore per la tecnica ci deve essere cura dell’uomo. Cosa vuol dire? Ad esempio, ritrovare la ‘pietas’: negli ospedali, nel lavoro, tra di noi".