"Ero il padre di tutte le cose, e il loro umile fratello consapevole delle loro miseriole, dei loro molti mali e delle loro grandi e piccole e umilette gioie", scrive Filippo De Pisis nel primo volume di prose, I Canti della Croara, uscito nel 1916. E Corrado Govoni nella presentazione aggiunge: "Sei un caro buono fanciullo. E sei un poeta. Perché ami e ti occupi di tutti gli insetti, di tutte le erbe, e sai i loro divini nomi…". Stretto tra memorie passate e attrazioni contemporanee, legato ai fasti superbi della
città natale e al suo modesto ottocento, Filippo De Pisis pubblica il primo romanzo autobiografico – Il Signor Luigi B. – nello stesso anno in cui, a Roma, viene organizzata la prima mostra, 1920. Ha ventiquattro anni. "A Roma ho fatto la mia prima esposizione di disegni e acquerelli (…). Di questa mostra non si è fatto il catalogo, né fotografie e non è uscita neanche una recensione. Resterà solo il discorso che ho pronunciato per giustificare questa inattesa decisione di darmi alla pittura". E’ questa l’occasione in cui definisce la sua arte come "grafie colorate". Ha inventato tutto.
Sono gli anni in cui recita versi di Giacomo Leopardi, nel giardino di casa, suscitando "scrosci di pianti". Altre volte si veste da Balzac, oppure "tira un tovagliolo sul telaio per dipingervi sopra" … È poeta o pittore? Se lo chiederà tutta la vita, fino alla straordinaria affermazione del 1951 (Confessioni) a cui affida la profondità di un lungo dissidio che dissidio non è: "In altre parole, alcune mie opere non sono che una specie di canovaccio di mie poesie".
Artista autodidatta, discendente da una famiglia di nobili origini, De Pisis trascorre una giovinezza straordinaria per vastità di interessi, frequentazioni felici, incontri, letture, passioni che comprendono conchiglie, farfalle e le famose piante (le ’erbe’ di Govoni), affidate alle pagine di un meticoloso erbario. Negli anni quindici conosce Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e suo fratello Alberto Savinio. Sarà questi che, incontrandolo con la reticella verde, gli consiglia di "andare a caccia del suo talento, invece di cacciare farfalle". E questo farà. La sua pittura traversa il Novecento come una scialuppa di salvataggio. Salva dell’arte antica quel che può, dal settecento veneziano all’ottocento francese mentre i movimenti del secolo nuovo gli scorrono accanto: Futurismo, Metafisica, Novecento. Leggera quanto precisa, sottile quanto descrittiva, potente quanto immateriale, l’opera di De Pisis sfida qualsiasi parola e sfugge le definizioni. Sembra stia per scomparire, sembra stia cogliendo l’ultimo sguardo dell’ultimo osservatore, sembra, sì, voler immortalare la fugace esistenza delle cose, ma le ammanta di una malinconia indimenticabile, di un’ombra, la paura della rinuncia, il terrore della sconfitta, tutto quanto di “umano” una rappresentazione possa contenere. La mostra Filippo De Pisis. Nascita di un quadro (Bologna CUBO, Museo Impresa Unipol, a cura di I. Bignotti e M. Tibertelli de Pisis, fino al 18 gennaio 2025) raccoglie una ventina di opere, capaci di narrare l’intera vicenda della sua arte. Scorre Ferrara, Roma, Parigi, Venezia, scorrono i temi prediletti, natura, oggetti, fiori, frutti; trascorre la sua vita, tra altre passioni e altri incontri. Restano i dubbi, sempre; la pennellata si assottiglia ancora. Gli sfondi sono lastre rarefatte su cui il colore si stende arido, aspro, scabro, oppure lascia guizzi luminosi come frammenti sopravvissuti da un altro codice figurativo. E restano le cose, una pipa, una lettera, un calamaio, una rosa in bottiglia, dove il bianco sul bianco cede la sua antica sapienza al candore di un nulla appena sfiorato, accennato, inviolato.