Bologna, 19 agosto 2018 – Nella frescura del suo ‘buon ritiro’ a Pavana, appennino pistoiese, tra pomeriggi trascorsi a guardare la tv, pellegrinaggi di amici e poeti, persino qualche concessione mondana, come l’apparizione, inaspettata, nel vecchio mulino di famiglia, per assistere a uno spettacolo di cabaret, Francesco Guccini ricorda con un misto di commozione e con la sua innata ironia l’amico Claudio Lolli, scomparso venerdì a Bologna.
Leggi anche: Folla, musica e lacrime alla camera ardente in Comune
Maestro, Lolli per lei era solo un collega? «Ci divideva l’età, lui almeno dieci anni meno, lo consideravo di un’altra generazione e forse per questo non siamo mai diventati veramente amici. Ma ci conoscevamo bene, Ci siamo incontrati grazie a mio fratello, che una sera, erano i primi anni 70, ha portato questo ragazzo, dall’aria ribelle e molto di sinistra, giù nello scantinato dell’Osteria delle Dame, che allora per me era la seconda casa. E fui io, impressionato dalle sue qualità artistiche, a metterlo in contatto con la EMI, che poi divenne la sua casa discografica Quindi, mi sento il responsabile dei primi passi della sua carriera».
Un rapporto, quello di Lolli con la EMI, che era anche la sua etichetta, però turbolento. «Guardi, Claudio aveva una sana ossessione per l’egemonia dei padroni, da combattere a tutti i costi. E, per lui, quelli della EMI, una multinazionale, erano semplicemente dei padroni. Così, dopo il grande successo di ‘Ho visto anche degli zingari felici’, rescisse il contratto, per firmarne uno con una casa discografica indipendente, la Ultima Spiaggia, quella di Ricky Gianco e di Enzo Jannacci, per fare qualche nome».
A proposito del suo essere molto di sinistra... «Tra me e Claudio c’è sempre stato un gioco, un piccolo scherzo privato che era diventato un tormentone delle nostre conversazioni. Chi di noi due era più di sinistra? Lolli, naturalmente, al cui confronto io passavo per un conservatore. Ma, come gli ricordavo ogni volta, esiste sempre qualcuno più a sinistra di noi…, per quanto noi ci sforziamo di essere rivoluzionari».
Cosa apprezzava di più nelle canzoni di Claudio Lolli? «I testi, certo, erano bellissimi, di una intensa poetica popolare, come nel suo capolavoro, ‘Ho visto anche degli zingari felici’. Ma quello che più mi colpiva, nei suoi brani, era la musica. Pura avanguardia, ricerca, sperimentazione, una capacità rara di far convivere, nella stessa canzone, il rock progressive, il folk e il jazz. Ecco, in questo era sicuramente un innovatore. Al confronto, le trame sonore delle mie canzoni erano semplicissime».
Avete fatto tanti concerti insieme. «Si, moltissimi, specie negli anni 70, quando, complice la militanza, si andava a cantare nelle situazioni più singolari. Una volta a Genova eravamo in una sala con il palco stracolmo di spettatori, quasi non c’era spazio per noi che ci esibivamo. Finito il concerto Claudio, che era il proprietario della macchina con la quale saremmo dovuti tornare a Bologna, scopre che qualcuno gli ha sottratto la giacca, che aveva abbandonato in un angolo, nella cui tasca c’erano le chiavi. Momenti di panico, poi lui fa una richiesta dal palco, chiedendo se tra il pubblico c’era qualcuno capace di aprire una macchina: si fa avanti un signore che, ci spiega, è il suo mestiere. Dopo poco tornavamo nella nostra città discutendo su chi, quella sera, si era dimostrato più a sinistra».