di Andrea Bonzi
Animali antropomorfi, divinità efferate, angeli e demoni. Ma anche ragazzi, donne e anziani, con i loro problemi. Tanti piccoli Davide che, contro Golia – sia esso una malattia o un mostro –, perdono sempre, e anche male. La graphic novel Notte Rosa (Coconino PressFandango) è un caleidoscopio di temi e stili diversi, che ha l’obiettivo di spiazzare il lettore. L’autore è Francesco Cattani, bolognese di 40 anni, disegnatore eclettico che mescola influenze e stili diversi, da Go Nagai ad Andrea Pazienza e Robert Crumb. L’horror, certo, non lo spaventa: nei mesi scorsi ha disegnato alcuni albi di Dylan Dog (Bonelli) insieme a Piero Dall’Agnol.
Cattani, i suoi fumetti sembrano uscire dagli incubi, è quella la sua fonte d’ispirazione?
"I primi racconti del volume risalgono a circa 10 anni fa, riflettono la rabbia e l’angoscia di quel periodo: sono frammenti horror con personaggi antropomorfi che agiscono assecondando gli istinti. Racconti ‘di pancia’, un esorcismo alle paure".
Perché l’utilizzo di queste figure con il volto di animali, come personaggi disneyani ‘per adulti’?
"Serve per prendere le distanze da quello che racconto, dalle esperienze più dolorose. Da ragazzo facevo l’attore, l’idea della maschera che rivela la doppia natura dell’animo di una persona – quella più dolce, umana, e quella più bestiale – rende bene il nucleo di questi lavori. Non voglio che le mie storie deprimano, però, cerco di essere autoironico e grottesco, il risultato deve essere catartico. Come un buon libro dell’orrore".
Ogni tanto spuntano riferimenti all’Emilia-Romagna. Che rapporto ha con la sua terra?
"Irrimediabilmente prendo spunto dal mio mondo, le ambientazioni giuste per i miei fumetti sono sempre prese da luoghi che conosco o in cui ho vissuto. Il prossimo libro, ad esempio, ha sfondi che ricordano le colline emiliane, posti come Tolé o Zocca, li conosco e so che potenziale hanno".
E Bologna quanto ha influito nella sua scelta di fare fumetti?
"Sono nato in provincia, ma a Bologna ho studiato al Dams e ricordo di aver percepito proprio lì quanto il fumetto fosse un’arte molto vitale, più di altre. Sono sempre stato attratto dal centro storico: i miei amici andavano nei centri commerciali, io volevo conoscere la gente delle altre città che veniva a Bologna a studiare e lavorare, sono stato sempre curioso. Mi sono buttato a capofitto nel fumetto, dopodiché, a un certo punto, sono scappato: Parigi, Roma, Milano, ho fatto 13 traslochi in 14 anni, una vera nevrosi. Alla fine, però, sono tornato qui".
Lei ha insegnato anche alla Scuola Internazionale di comics. In tempi di smartphone e social media, il fumetto ha ancora modo di stupire i ragazzi?
"La luce che arriva dagli smartphone rapisce anche gli adulti, c’è poco da dire, non è facile concentrarsi sulla lettura. I ragazzi cerco di scioccarli un pochino, sovraccaricandoli di lavoro. Li provoco, li faccio arrabbiare, è una terapia d’urto: appena uno di loro ottiene dei risultati in un gruppo, gli altri vogliono andargli dietro e sono disposti ad applicarsi il doppio. Credo che funzioni: se ci piace una cosa, tutti vogliamo essere bravi a farla".