"Nel tempo che impiega un giudice a leggere gli atti, il femminicida ha già ucciso. I tempi minimi della giustizia, strettamente necessari a garantire un processo giusto, sono comunque troppo lunghi rispetto alla repentinità di questi omicidi, di una violenza impetuosa". È questa la ’falla’ nei tentativi di proteggere le donne dai loro aguzzini, secondo il giudice Francesco Maria Caruso, già presidente del tribunale di Bologna, da poco in pensione e con alle spalle, tra le altre, le sentenze del processo Aldrovandi e, più di recente, quello "dei mandanti" della strage di Bologna, culminato con l’ergastolo a Paolo Bellini.
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Dottor Caruso, cosa si può fare per difendere le donne?
"Negli anni ci si è molto preoccupati degli errori giudiziari, delle giuste garanzie di libertà personale: tutti atteggiamenti correttissimi, che però in questi casi si rivelano incompatibili con un fenomeno che sta diventando incontrollabile. Un atteggiamento ormai culturale, che gli schemi giudiziari non riescono a contenere. Allora, io dico: al primo segnale di violenza, bisogna intervenire. Fermare subito la persona che la donna denuncia, arrestarla quando ancora non si sa bene chi sia, dove voglia arrivare e di cosa potrebbe essere capace è l’unica soluzione. Anche se impraticabile".
E il rischio di arrestare un innocente?
"Il tribunale di Bologna si occupa di tantissimi casi di violenze sulle donne, e per fortuna quelli che culminano in un delitto sono la minoranza. Ma anche solo un caso su cento è intollerabile. Inoltre, anche se non in omicidio, quasi sempre stalking e affini sfociano in violenze e lesioni alla vittima".
C’è modo di prevenire questi omicidi?
"Ci sono dati indiziari che possono dare un’idea, ma non sempre, e nessun caso è coerente a un modello congruente con un’ipotesi di omicidio imminente. Un indizio può essere se il denunciato ha precedenti violenti, per esempio. Ma se tutte le volte che una donna denuncia un’aggressione o lo stalking di un geloso patologico ci fosse un intervento immediato e il denunciato fosse subito fermato a prescindere dall’analisi dei dati, che avverrebbe in un secondo momento, non escludo potrebbe essere una soluzione, anche se estrema".
I casi di denunce strumentali però esistono. Come fare allora?
"Queste sono forse meno di quanto si pensi, anche se ci sono. È del resto il motivo per cui non si può agire immediatamente fermando le persone denunciate, nella realtà. Se potessimo contare sull’attendibilità di tutte le denunce saremmo tranquilli. Inoltre, la gamma delle vicende contestate è cosi varia che costringe chi procede a impiegare un minimo di tempo per selezionare e filtrarle. Tempo che, nei casi più tragici, è sempre troppo lungo, ribadisco".
La rapidità d’intervento imposta dalla legge Codice rosso è insufficiente?
"Lo strumento è corretto, costringe a intervenire con priorità e massima urgenza sui casi di violenza alle donne. Ma anche questi tempi, per quanto rapidi, faticano ad anticipare un’eventuale azione delittuosa o a scongiurarla: mentre il giudice legge una carta, l’assassino ha già colpito. Le garanzie minime di un processo civile devono fare i conti con tempistiche insostenibili, non per via di ritardi nei processi o per anomalie dell’iter: è sempre così, anche nel miglior scenario possibile".
Ritiene che i casi di violenza contro le donne stiano aumentando?
"Sì, soprattutto negli ultimi 3-4 anni. La mia percezione è che si tratti di un fenomeno culturale legato all’attuale periodo storico e all’evoluzione dei rapporti di genere. Quest’ultimo delitto, per esempio, è eclatante proprio in questo senso: il giovane assassino non aveva alcun motivo per arrivare a un gesto così estremo. Tante relazioni diventano conflittuali e si concludono in contrasti più o meno ’civili’, ma che sottendono contesti violenti. Ce lo dice la cronaca, persino quella ’rosa’".