Oltre 600 infermieri se ne sono andati dagli ospedali e dalle strutture sanitarie di Bologna negli ultimi quattro anni. Molti sono ritornati nelle regioni del sud da dove erano partiti, ma tanti hanno deciso di andare all’estero: la maggioranza nel Regno Unito, ma anche in Svizzera, Germania, Belgio, Francia e Paesi Arabi.
"Negli ultimi sei anni, hanno lasciato l’Italia almeno 30mila infermieri, il dato è fornito dall’Ocse – afferma Pietro Giurdanella, presidente Ordine professionale infermieri di Bologna e dell’Emilia Romagna –. Siccome quelli che vanno nel Regno Unito hanno bisogno di un visto dell’Ordine sappiamo quanto guadagnano: sono 1.600 euro a settimana e nei Paesi Arabi prendono più o meno la stessa cifra. In Italia un infermiere quei soldi li guadagna in un mese. In Svizzera prendono dai 1.000 ai 1.200 euro la settimana".
Giurdanella riflette anche su di un altro aspetto del quale, a suo modo di vedere, occorre tenere conto: "I costi di formazione e laurea di questi professionisti sono alti: i trentamila che non abbiamo più sono costati circa un miliardo di euro. Il concetto è che noi li formiamo e poi se vanno all’estero. E quelli che eventualmente vengono presi da altri Paesi sono naturalmente da formare, stiamo parlando ad esempio degli infermieri indiani, perché non parlano l’italiano. Qualcuno poi mi deve spiegare perché un infermiere indiano deve venire da noi a guadagnare in un mese quello che in Inghilterra gli danno in una settimana e senza avere il problema della lingua, visto che loro sono di madrelingua inglese. Voglio precisare: non è che si dice di no a priori, ma qui il problema è di tipo strutturale e occorre una risposta organica".
Per Giurdanella un altro, importante, aspetto da considerare è che di infermieri se ne perde, più o meno, un trenta per cento durante gli studi universitari. E qui torna la riflessione che viene avanzata da più parti: "Bologna è una città costosa, gli affitti sono alle stelle per gli stipendi che ricevono questi professionisti, quindi anche per questo se ne vanno – fa notare –. Bisogna ragionare su come trattenere questi ragazzi già dall’università. E non c’è solo un problema di stipendio, ci sono anche quello organizzativo e di evoluzione della professione. Si lavora ancora come 25 anni fa: all’infermiere non viene riconosciuta l’alta specialità e questo crea sofferenza, una distorsione per quello che vorresti essere e quello che sei. Abbiamo nel Paese oltre 20mila infermieri laureati magistrali, con grandi competenze – precisa –. E anche dopo 20 anni di lavoro, di esperienza non solo avrà lo stesso stipendio ma lavorerà nelle stesse condizioni di quando non aveva nessuna esperienza. Non ha autonomia, responsabilità: riconosciamo queste caratteristiche, è un bene anche per il cittadino. Faccio l’esempio dell’infermiere domiciliare, qualsiasi cosa faccia deve sempre chiamare il medico che magari non conosce il paziente. In Inghilterra, invece, questa autonomia viene riconosciuta".
Il presidente ribadisce l’importanza di affrontare la carenza di personale sanitario non solo per quanto riguarda le emergenze ma nel lungo termine: "Dobbiamo ragionare in termini di rete di istituzioni, quindi sono d’accordo con quanto detto da Orta sulla cabina di regia regionale sulla crisi del personale nel sistema sanitario".