Alberto Burri ed Edgardo Mannucci: due figure così diverse, così uguali. L’uno nato a Città di
Castello, l’altro a Fabriano, i due artisti del ventesimo secolo sono noti per aver contribuito a ridefinire i confini dell’arte astratta e informale. Burri e Mannucci, una storia anni Cinquanta è il titolo di una mostra che s’inaugura oggi alle 18 alla Galleria Spazia (in via dell’Inferno, 5), proprio allo scopo di mettere in luce le loro affinità e divergenze.
L’incontro tra i due protagonisti avvenne nel 1946 a Roma, dove aprirono un sodalizio sia amicale che professionale, testimoniato dalla comune passione per le loro terre e da una visione formale simile. Le reciproche influenze sono ravvisabili soprattutto nelle serie dei Cellotex di Burri e nei Rilievi di Mannucci, di cui in esposizione vi sono formidabili esemplari. Un punto di contatto tra i due artisti è il fuoco, usato da entrambi come strumento creativo. In Burri, la fiamma diventa medium per deformare i materiali plastici e lignei, a tal punto da arrivare, in certi casi, anche ad annullare la materia. Per lui la combustione è una metafora potente di distruzione e rinascita che affonda le sue radici nell’esperienza personale della guerra.
Anche Mannucci sperimenta le qualità corrosive e trasformative del fuoco. In particolare, egli si avvale della fiamma ossidrica per modificare le superfici delle sue opere, creando texture che sembrano rivelare il passaggio del tempo e l’azione degli agenti atmosferici. Da un lato, quindi, il fuoco che devasta e distrugge, dall’altro il fuoco per trasformare e plasmare la materia.
Manuela Valentini