Bologna, 31 agosto 2022 - "Mio marito ha tentato di uccidermi cinque anni fa. Ma quella a sentirsi sotto inchiesta sono sempre stata io". C’è un buco di 24 ore nella vita di Manuela (il nome è di fantasia). Dalla sera del 25 aprile 2017, quando dopo aver bevuto un succo di frutta si è addormentata nel suo letto, fino alla mattina del 27 aprile successivo, quando si è svegliata alla terapia intensiva del Sant’Orsola, nel sangue una quantità tossica di farmaci. La donna, oggi 52 anni, rappresentata dall’avvocato Alessandro Veronesi, è parte lesa nel processo che si aprirà il prossimo 16 settembre e che vede il marito, un imolese di 57 anni, imputato per tentato omicidio. In primo grado l’uomo è stato assolto, ma il pm Antonello Gustapane, che per lui aveva chiesto una condanna a nove anni, ha fatto appello alla sentenza e tra due settimane si tornerà in aula.
Manuela, perché dopo cinque anni di silenzio oggi ha deciso di parlare?
"È stato il femminicidio di Alessandra a spingermi. Quando una donna muore uccisa dal partner tutti si affrettano a dire che bisogna denunciare, che c’è una sempre una rete di supporto... La verità è che spesso le vittime faticano a farsi credere, che le indagini si concentrano più su di loro che sui loro aguzzini. E anche il tempo... Il tempo troppo lungo per avere giustizia fa perdere la fiducia".
In primo grado il suo ex marito è stato assolto da un’accusa pesantissima: di averle avvelenato il succo di frutta, con lo scopo di ucciderla. Cosa ha provato dopo la sentenza?
"Sconforto, tanto. Ma il processo non è finito. A settembre torneremo in aula, per l’appello richiesto dalla Procura. Lo voglio specificare, perché anche l’avvio delle indagini non è nato da una mia denuncia, ma dallo stato in cui sono stata trovata. Io non ricordavo nulla. Ero andata al letto. E mi sono svegliata, frastornata, in ospedale".
Ha poi ricostruito cos’era successo?
"Le indagini tossicologiche affidate alla dottoressa Elia del Borrello hanno evidenziato come il succo di frutta che quella sera mi aveva offerto mio marito fosse stato addizionato con una dose massiccia di farmaci: quattro flaconi di Lormetazepam e amitriptilina. Erano giorni che mi diceva: ‘Devi riposare’. E poi mi portava il succo a letto. Il suo scopo era farmi passare dal sonno alla morte. Infatti, malgrado non mi svegliassi, non rispondessi ad alcuno stimolo, non ha avvertito i soccorsi, non ha chiamato il mio medico, anzi, ha spostato un appuntamento che avevo. A mia madre che aveva telefonato per sapere come stavo aveva minimizzato. È stata lei a chiamare l’ambulanza, sentendomi rantolare".
Però i giudici non le hanno creduto. Perché?
"Non lo so. Penso che nella prima fase delle indagini tante cose non siano state prese nella giusta considerazione. Sono state le indagini portate avanti dal mio avvocato a smentire, punto per punto, l’alibi del mio ex marito, con fatti accertati e riscontrati. La sentenza mi ha lasciato allibita. Io so di essere stata avvelenata, era intossicato il mio sangue, era intossicato il succo trovato a casa mia. Ma oggi non c’è un responsabile".
Ha detto di essersi sentita lei oggetto di indagine.
"Sì. Sono stata sentita più volte io del mio ex marito, indagato del mio tentato omicidio. è stata messa in dubbio ogni mia risposta: sono stata sentita mesi dopo il coma, avevo dei vuoti. Questo mi ha resa ‘inattendibile’. Avevo sentito il mio ex per gestire le bambine, mi è stato detto: ‘Allora le cose non vanno tanto male se vi sentite’. Ero io quella da valutare, non lui. E quindi quando tante donne non denunciano gli abusi, capisco perché: non ce la fanno, da v ittime, a sopportare un processo".